Il terzo capitolo di A Quiet Place, la saga sci-fi ormai famosissima è giunto finalmente al cinema, svelandoci l’ultimo giorno di normalità o il primo di devastazione. A cavallo tra una New York ordinaria e una città che sprofonda nel caos muto c’è una coppia improbabile, in fuga verso il proprio destino.
Nata (per buona parte) dalla mano e dalla mente di John Krasinski, questa catena di film post-apocalittici che fa del silenzio il suo elemento predominante, ha esordito nel 2018 e pare non placarsi. Iniziata con l’esplorazione di una famiglia alle prese con la minaccia aliena, ora sceglie di seguire invece una coppia di estranei in una specie di percorso emotivo ma non romantico. Il loro avvicinamento casuale e il legame automatico che li congiunge, è stretto da un’associazione molto interessante che vive tra lo spirito di sopravvivenza e una malattia terminale.
Da un lato c’è la paura di Eric (Joseph Quinn), dall’altro la rassegnazione di Sam (Lupita Nyong’o). Lui non vuole morire, lei sì, e questo cambia tutto nell’ottica di quello che pare un classico film fantascientifico di sopravvivenza.
Trovare la pace per sé stessi in uno scenario che di pacifico ha davvero poco può essere ciò che innalza l’asticella rispetto ai due capitoli precedenti, ma purtroppo non è così. Nella prima mezz’ora ci speri, nella seconda prendi consapevolezza del contrario, nella terza ti rassegni e provi a prendere il buono.
A Quiet Place Giorno 1: un silenzio rumoroso
Tutto parte con una New York dall’alto e i dati statistici di quanto rumore provoca ogni giorno. Un’ottima apertura sapendo ciò che accadrà da lì a poco e conoscendo di cosa sono assetati questi invasori alieni. Peccato che l’assordante silenzio del primo film (e in parte del secondo), durante il minutaggio di questo terzo A Quiet Place lasci spazio a rumori o altre tipologie di suoni che riempiono lo spettro acustico, e contribuiscono al minore impatto che tutto il film possiede rispetto ai precedenti.
Oltre a questo aspetto c’è talvolta anche la mancanza di una cura minuziosa nel voler essere perfettamente coerente. Alcune sequenze ad esempio privilegiano la messa in scena goduriosa alla correttezza del contesto. Se un personaggio nel primo atto corre e viene istantaneamente fatto fuori, non è plausibile che dopo mezz’ora in un’altra situazione e con almeno 15 creature al seguito, tu (personaggio x) riesca a scappare correndo, sia per un fattore di velocità che per rumore provocato.
Si esagera un po’ diciamo nel tirare la corda di cosa sia consentito in quel mondo narrativo ed è un peccato dato che nei primi due ciò non accadeva.
Il mistero rimane l’arma più potente
Rimane ancora molto mistero ad avvolgere queste creature e forse è proprio questo l’elemento che dona fascino al contesto. D’altronde di film fantascientifici con al centro degli alieni venuti da chissà dove ne sono stati realizzati a centinaia ormai, ma molti sprofondano facilmente nel dimenticatoio.
Essenziale è dunque lasciare una buona dose di domande nella mente dello spettatore, una zona occulta, buia, che non deve essere svelata. L’equilibrio però è davvero sottile, in quanto man mano che i capitoli aumentano, i fan vogliono anche saperne di più e sotto questo punto di vista sono stati capaci di operare in maniera ottimale.
Tante sono le creature che ci vengono mostrate, chiamate in modo semplice e distaccato “gli aggressori” all’altoparlante degli elicotteri militari. Le conoscevamo già nella crudeltà e nel design ma in questa occasione possiamo approfondire in parte la conoscenza, tramite usanze che ci vengono accennate. Dai cunicoli in cui si nascondono, ai punti deboli, passando per le scorte di cibo (che pare si siano portati da casa), fino ai raduni per la cena.
Aumentare la posta in gioco significa incrementare gli alieni
Se nel primo film la minaccia era univoca o sembrava tale, qui ne vediamo a centinaia di questi simil-demogorgoni dal viso apribile. Sembrano colonie di ragni velocissimi, specialmente quando vengono inquadrati in panoramiche dall’alto mentre, velocissimi, si aggrappano sui muri di una New York annientata e instabile, perché scatenati da qualche rumore.
Se ci pensiamo è quasi sempre così, aumentare la posta in gioco spesso pare sia direttamente proporzionale all’incremento del numero di alieni. Accadeva in Alien, è accaduto televisivamente parlando in Stranger Things, accade qui.
Vivere letteralmente per la pizza
Di certo è apprezzabile quando un film di questo genere riesce a nutrire anche un nucleo narrativo efficace che doni alle masse un messaggio energico, ma non è il principale obiettivo. In primis è l’intrattenimento ciò di cui deve vibrare, condito magari da qualcosa di simpatico che dia quella sfumatura sprezzante in un contesto oscuro.
Qui c’è ed è la pizza.
Il giorno in cui il mondo sprofonda nel silenzio, in cui l’unica scelta data all’umanità è “o stai zitto o muori”, una ragazza sceglie di andare dalla parte opposta, proprio come vedremo accadere anche letteralmente mentre una massa si dirige verso la salvezza e lei fa il contrario.
Sopravvivere ancora un po’ solo per assaporare una pizza, quella che tanto desiderava prima che questi antipatici alieni invadessero la Terra. Sinceramente, per chi vi parla, è un elemento geniale utilizzare l’idea di un cibo così godurioso come chimera prima di abbandonarsi al fato. Ovviamente, non serve dirlo, bisogna guardarlo anche in senso metaforico: ciò che ti dà felicità è ciò a cui devi aspirare per vivere.
Un finale perfetto
In conclusione dunque, gli scenari desolati e pregni di una vitalità desaturata di questo nuovo A Quiet Place, virano la saga verso tonalità più emotive che pesano sull’incessante destino dei personaggi coinvolti, non dimenticandosi però di esser nati per il puro intrattenimento. Il finale poetico poi, sceglie di contrastare il male con la musica, chiudendo in maniera brillante i 99 minuti di questa avventura sci-fi compatta e asciutta.
Trovare la pace nel dolore della fine radunando le ultime forze per cercare il momento ideale. Di certo un punto a favore per un terzo film che tirando le somme cala il livello dei precedenti. Non c’è niente da fare, una foresta silenziosa e disabitata, in cui tutto è già misterioso e inquietante di suo, non perderà mai in termini di fascino ansiogeno se messa a confronto con una moderna metropoli americana.