La recensione di Megalopolis, il film di Francis Ford Coppola presentato a Cannes ed evento di pre-apertura della Festa del Cinema di Roma 2024.
Francis Ford Coppola va all-in. A 85 anni, l’avventuriero americano, tra i registi più scostanti e ribelli di quella che fu la Nuova Hollywood, vincitore della Palma d’Oro a Cannes per La Conversazione (1974) e Apocalypse Now (1979), ha finalmente presentato al pubblico il suo nuovo Megalopolis.
Un film-cattedrale, ma con i mattoni a vista, un progetto monumentale già pericolante, di cui si vociferava fin dagli anni ’80, autoprodotto con 130 milioni di dollari perché ritenuto da tutti troppo difficile da finanziare con le modalità tradizionali.
Una favola politica retrofuturista che è anche l’autoritratto dell’artista come cittadino, come entità attiva nel proprio contesto politico e sociale, capace di influenzare con la propria visione delle cose il futuro di un’intera comunità (se non proprio dell’umanità).
Megalopolis, una visione d’autore
La visione dell’autore come ubermensch, superuomo con superpoteri (quello di fermare il tempo con uno schiocco di dita, in questo caso specifico) che però non sembrano mai davvero utili, realmente in grado di modificare il presente e plasmarlo secondo le proprie volontà.
Ed è questa dimensione titanica di sconfitta, di fallimento ab orìǧine, che è forse la cosa più affascinante di un progetto assolutamente illogico nella sua magniloquenza, nel suo voler raccontare in maniera definitiva l’America contemporanea, la sua decadenza, le sue divisioni, la sua disperazione.
Due uomini si confrontano, il sindaco Franklyn Cicero (Giancarlo Esposito) e il geniale premio Nobel Cesar Catilina (Adam Driver). E, attraverso di loro, due concezioni opposte del mondo. Il primo vorrebbe edificare una città casinò, mentre il secondo, inventore di un materiale rivoluzionario, si oppone alla città come luogo ammorbato dai propri rifiuti, luogo dello spreco, centro di segreto dominio che aumenta le proprie dimensioni come una cisti.
In questo senso, Megalopolis trova un inaspettato punto di contatto con Tomorrowland di Brad Bird (persino ringraziato nei titoli di coda!). In quella stranissima opera disneyana, ibridata tra necessità industriali e velleità autoriali (in Megalopolis ci sono invece solo queste ultime) la fine del mondo si configurava come profezia autoavverante, come ipnosi collettiva indotta da un ripetitore (chiamato monitor) che mostrava all’umanità, sebbene inconsciamente, come sarebbe stato il suo futuro.
La tesi centrale è molto semplice: il mondo del 2015 è una delusione, un disastro, e nessuno sta facendo nulla di serio per migliorare la situazione. Che è la stessa tesi di Coppola nel 2024, anche se il mondo si riduce alla sola America e al posto delle paure globali messe in scena da Bird (cambiamento climatico, paranoia post-11 settembre e guerre in Medio Oriente) ci sono quelle più prettamente “domestiche” dell’era Trump.
Il mondo ha bisogno di una nuova generazione di ragazzini sognatori ed eccezionali, ci spiegava Tomorrowland, proponendo una soluzione più collettiva (anche se il club dei bambini prodigio era pur sempre elitario), rispetto all’accecante individualismo del “salvatore” che regge il peso del mondo sulle proprie spalle, che è il modello invece proposto da Coppola.
Megalopolis racconta l’epopea di una famiglia di potere con un completo disinteresse rispetto ai codici linguistici con i quali questo genere di storie sono state recentemente presentate con successo (si pensi ovviamente a Succession). Il suo approccio non è calcolatore, ma anzi animato da un’ingenuità disarmante, quella che solo un maestro in tarda età e senza nulla più da dover dimostrare può concedersi.
Utopie in stile anni 80
Ritornando sulla sua estetica anni Ottanta – che implica anche una visione un po’ stereotipata della donna, femme fatale (Aubrey Plaza, fortunatamente abbastanza intelligente da insistere comicamente sugli aspetti caricaturali del suo personaggio) oppure candida e affabile musa (Nathalie Emmanuel) – Coppola rifà se stesso nell’era delle immagini digitali, quelle che ha contribuito a inventare e che ora lo sovrastano, che in alcuni momenti sembrano addirittura prendere il controllo del film, dando spesso l’impressione di trovarsi davanti a sequenze dirette e coreografate da intelligenze artificiali buggate, manomesse nel loro algoritmo.
Tirando il filo del tempo dalle sue due estremità, passato e futuro, Coppola crea un presente utopico, gettando al vento la correttezza narrativa, come fatto a suo tempo da Richard Kelly con Southland Tales (2006), altro film radicalmente disordinato e onnicomprensivo in cui si regolavano i conti con gli anni di Bush.
Da ormai vent’anni Coppola ha volutamente smesso di inseguire il capolavoro magistrale, ribadendone in qualche modo la sostanziale inutilità oggi, nella fluidità del cinema contemporaneo, dedicandosi invece alla creazione di film compositi, volutamente imperfetti, impuri, il cui scopo principale non è tanto quello di convincere, seducendolo, il proprio spettatore, ma di lavorare con i generi e con i loro cliché per andare a cercare, nelle pieghe di narrazioni estremamente convolute, le linee di faglia da seguire per orientarsi tra gli sconvolgimenti tettonici delle proprie immagini.
Il personale umorismo di Coppola
Già con Twixt, in linea con i precedenti The Ageless Man e Tetro, il cinema di Coppola aveva rivelato un suo personale umorismo, ma anche una spiccata erudizione letteraria (dalla letteratura argentina di Adolfo Bioy Casares e Jorge Luis Borges, fino ad Edgar Allan Poe e Baudelaire), nonché lo stesso intreccio ironico di realtà e immaginazione che troviamo adesso in Megalopolis, dove invece i riferimenti letterari sono ovviamente quelli classici.
Al centro di quella storia di vampiri c’era uno degli eventi più tragici della biografia del regista: la morte, in un incidente in motoscafo, del primogenito Gian-Carlo, nel 1986. Un lutto personale che inevitabilmente finiva per “compromettere” la produzione artistica del suo protagonista (e del suo alter-ego nella realtà), affermando che la vita e l’opera di un grande autore sono una cosa sola, in cui fobie e fantasie inestricabilmente si mescolano con la cronaca privata.
Megalopolis, in questo senso, è la storia di un demiurgo che tenta di curare le crisi organico–ecologiche del suo tempo, di rigenerare i tessuti feriti e inquinati del mondo in cui vive, facendo non tanto affidamento sulle proprie capacità sovrannaturali, sostanzialmente inutili, ornamentali, quanto sul dono dell’invenzione umana e sulla propria competenza di artigiano.
Un Leonardo da Vinci che progetta utopie in computer grafica, deludenti perché irrimediabilmente finte, come d’altronde fa lo stesso Coppola, suggerendo un effetto migliorativo del cinema sulla società in un’epoca segnata dalle sale vuote, dal dominio dello streaming (a cui strenuamente si oppone), dal progressivo allontanamento del pubblico e dalla diffidenza di produttori e distributori nell’investire in opere come le sue. Megalopolis, alla fine, è soprattutto questo: una cattedrale nel deserto.