Cannes 2012: Jagten (The Hunt), recensione

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La famiglia come aberrazione della società contemporanea, con i suoi codici comportamentali le sue menzogne e la sua violenza era già stata raccontata da Vinterberg con lucida chiarezza un decennio fa con Festen, primo film del Dogma’95. Oggi, nella Compétition del 65esimo Festival di Cannes, torna, con un cinema digitale un po’ più evoluto, a quella tematica, e a quei concetti con Jagten. Il film racconta la storia di Lucas (Mads Mikkelsen), insegnate d’asilo di una piccola comunità danese, dove è cresciuto, che viene improvvisamente accusato di molestie sessuali da una sua alunna, figlia del suo miglior amico. L’accusa da parte della piccola Karla in realtà è del tutto involontaria e nasce da una forzata interpretazione della direttrice e dello psicologo che la interroga mettendo quasi le parole in bocca. Ma il dubbio si trasforma in certezza, e l’accusa in condanna agli occhi di tutta la comunità.

Come un virus, la convinzione della colpevolezza di Lucas, senza prove, contamina l’intera cittá. Loro vedono il mostro in Lucas e cercano di espellere l’anomalia, la macchia da presa vede la mostruosità, la malattia, che diventa la comunità. Terrorizzata dal dubbio sceglie la certezza a priori e l’amputazione di un suo membro per la sopravvivenza dello status quo. Una dinamica mafiosa. Tendenzialmente ricattatorio nel veicolare lo schieramento dello spettatore, il film deve molta della sua credibilità al protagonista che misura costantemente l’intera atmosfera del film. Scivolando sempre di più in un baratro di terrore e rabbia Lucas si trova a un evento che non può sovvertire, a una forza che non può contrastare. O stai alle regole del gruppo o soccombi.

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