The Mend, presentato al Torino Film Festival, opera prima di John Magary, si colloca nella variegata galassia Indie statunitense, che regala piccoli gioielli a volte, ma purtroppo non sempre. Il regista segue le giornate di Mat (Josh Lucas) e Alan (Stephen Plunkett), due fratelli in conflitto, accomunati dal dolore di vivere e divisi dalle scelte di vita. Mentre Mat è una sorta di animale, dominato dalla rabbia e dall’incapacità di realizzare alcunché, fosse anche solamente raccogliere i cocci di un bicchiere rotto, Alan cerca di trovare un equilibrio e un antidoto alla sua tristezza di fondo nella relazione con Farrah (Mickey Sumner), che però lo lascia. I due sono costretti ad una convivenza forzata in un angusto appartamento newyorkese che resta privo di energia elettrica, e dove per qualche tempo si fermerà con il suo bambino anche Andrea (Lucy Owen), con cui Mat ha una relazione difficile e intermittente. Intorno a loro, una New York stereotipata, personaggi del teatro off, feste con fumo libero, un vecchio artista beat, e soprattutto le quattro soffocanti mura dell’appartamento.
John Magary è regista e sceneggiatore di questo suo primo lungometraggio, dopo i corti The Second Line del 2007 e Our National Park del 2005, ma, nonostante The Mend sia stato presentato al Festival South by Southwest 2014, non è riuscito a centrare il suo obiettivo. La bella prova di recitazione dei protagonisti, che danno il meglio di se stessi costretti ad essere estremi senza un reale sostegno narrativo (Josh Lukas è stato elogiato anche dai maggiori magazine statunitensi), non basta a salvare un film privo di una sceneggiatura convincente, in cui la circolarità ripetitiva delle situazioni genera soprattutto noia e non comunicazione, e i pochi barlumi di luce promessi da alcuni snodi drammatici (il rientro imprevisto di Alan, la malattia del vecchio Earl, l’antico conflitto tra i due) si risolvono in una bolla di sapone. Debolissimi i dialoghi, stentate le parti che dovrebbero suonare ironiche, in un indeciso altalenare tra dramma e commedia, e superficiali i continui riferimenti alle ferite del corpo e dell’anima che richiedono una guarigione (da qui il titolo). Non basta un buon soggetto per reggere quasi due ore di sviluppo, Magary ha peccato di presunzione nella costruzione della sceneggiatura e avrebbe avuto bisogno di un buon paio di forbici in fase di montaggio. Si riscatta con la bellissima colonna sonora (Judd Greestein e Michi Wiancko), che deve sostenere da sola l’impianto di un film che manca di direzione.
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