Nelle nostre sale dallo scorso 7 gennaio, La grande scommessa è il nuovo attesissimo lavoro del cineasta americano Adam McKay, noto al grande pubblico per la fortunata serie comica di Anchorman, con protagonista Will Farrell. Il film, già in lizza in diverse categorie agli imminenti Golden Globes e uno dei massimi favoriti per la prossima corsa alle statuette, narra la vicenda (reale) di un gruppo di speculatori di borsa che, analizzando alcuni insistenti segnali economici, previdero prima del suo scoppio la gigantesca bolla immobiliare alla base della recente crisi mondiale. Al servizio di una sceneggiatura ben scritta e costruita, un cast composto da nomi altisonanti, da Steve Carell a Christian Bale, passando per Ryan Gosling e Brad Pitt. Per le tematiche affrontate il paragone più immediato (e probabilmente fuorviante) è necessariamente quello con The wolf of Wall Street di Martin Scorsese. Tuttavia la pellicola di McKay non si sofferma tanto su di un edonismo fatto di sesso selvaggio e droga facile, come quello scorsesiano, bensì su di un edonismo economico e capitalista frutto di leggi poco chiare e controlli inesistenti. Se il regista di Taxi Driver indagava il “fenomeno”, intraprendendo una ricerca quasi filosofica sul potere del denaro, McKay si sofferma con lucidità giornalistica su di una vicenda ben definita, quella della bolla immobiliare, e delle ripercussioni che ebbe sul mondo intero. Riprendendo un discorso di satira politica e sociale cominciato con il divertentissimo e oltraggioso Anchorman, McKay fornisce il quadro di una nazione divorata dalla sua stessa retorica, quella di un “sogno americano” nel nome del quale è ormai legittimo truffare, rubare e dissimulare.
La pellicola, forse non a caso, arriva nelle sale proprio durante la campagna elettorale per le presidenziali, ancora una volta caratterizzata dalla totale assenza di un dibattito concreto e realistico circa una necessaria riforma bancaria che punisca gli abusi e tuteli i consumatori. Il bilancio di questo La grande scommessa è impietoso. Responsabilità del disastro non ricade solo su Wall Street, colpevole di avarizia e sete di denaro, bensì sul più ampio e strutturato apparato economico e monetario, dalle agenzie di rating fino ad arrivare addirittura alla Federal Reserve. Dal governo Reagan in poi si è attuata una folle e scellerata politica di deregolamentazione che ha portato alla crescita di fenomeni subdoli e spesso invisibili come quello dello shadow banking, spingendo tanti istituti di credito a rischiare ben oltre la soglia non scritta del buonsenso. Il tema economico, anche se spesso lo dimentichiamo, è alla base della nostra moderna concezione di esistenza. Quei numeri, apparentemente asettici e di poco interesse, sono capaci, con la loro oscillazione, di sconvolgere la vita di milioni di persone, determinando la loro fortuna o, più frequentemente, la loro disgrazia. E’ per questo che, in un mondo in cui “le persone sono interessate solo a quale sarà il prossimo divo a finire in rehab”, per citare il personaggio di Baum, McKay gioca con la cultura popolare, con gli oracoli dello show business e del mondo del cinema e dello spettacolo. E’ allora che la cantante pop Selena Gomez, o ancora Margot Robbie, immortalata in una lussuosa jacuzzi, diventano, in un divertente ribaltamento dei ruoli, i veri economisti, quelli in grado di spiegare al pubblico i complessi meccanismi economici, dai titoli tossici alle obbligazioni sul debito, in esilaranti quanto riuscite spiegazioni semplificate.
Ma La grande scommessa è innanzitutto una pellicola sugli uomini, prima che sui numeri. I personaggi, coloriti outsiders, non sono aridi banchieri, bensì uomini inquadrati nella loro vulnerabilità, appesantiti da un passato che non ha mai risparmiato nulla e che non nasconde evidenti segni sulla personalità e sul comportamento dei protagonisti, diffidenti e lunatici, al limite della sociopatia. Il personaggio di Burry interpretato da Bale, per esempio, è un individuo guidato dai demoni, driven by demons, come recita il brano dei Pantera che abitualmente suona alla batteria per rilassarsi e tornare in pace con se stesso. La colonna sonora pesante e adrenalinica che caratterizza le sequenze con protagonista Burry rappresenta in maniera efficace il caos che alberga nella sua mente sempre vigile e attiva. E’ per questo che la droga, alla base del testo di Master of Puppets dei Metallica, diviene ideale rappresentazione del denaro che guida le esistenze dei personaggi, e il “leviatano” dei Mastodon metafora del moloch finanziario che governa silenziosamente la nostra vita e la nostra società. Ryan Gosling, nei panni di Jared Vennett, recita invece con due piedi nella stessa scarpa, rivestendo sia il ruolo di interprete che quello di narratore, ironico e smaliziato Cicerone tra i giorni di un inferno economico fatto di bugie, inganni e colpi bassi. Da segnalare, se pur in un ruolo minore, la splendida performance di Brad Pitt nelle vesti di uno scafato “guru” della borsa che decide di aiutare due giovani e spericolati sprovveduti a districarsi con la complessa vicenda che fortuitamente è capitata tra le loro mani. La quarta parete che convenzionalmente separa i protagonisti dallo spettatore viene in questo caso ripetutamente infranta e oltrepassata, in quanto più volte i personaggi sono chiamati a interagire direttamente con il pubblico attraverso battute e precisazioni.
Per sottolineare la centralità delle “persone”, delle loro esistenze e delle loro emozioni, la macchina da presa rimane sempre in disparte, ai margini della scena. Il regista si avvicina ai protagonisti attraverso zoom e primi piani, senza mai invadere fisicamente lo spazio presente tra gli attori, lasciando gli interpreti liberi di poter dare libera espressione del proprio talento e della propria bravura, come su di un set teatrale piuttosto che cinematografico. McKay, nelle inediti vesti di medico e psichiatra, mette in mostra gli effetti psicologici di una Wall Street dipinta come invadente patologia che, pasolinianamente, segna in maniera tangibile e visibile la fisiognomica dei personaggi. Da questi presupposti si sviluppa il fondamentale concetto di “egemonia” monetaria, non solo semplice potere economico, bensì capacità attiva di denaturalizzare gli individui, a partire dal proprio corpo. La “permamente attività culturale” statale si riflette quindi non solo sulla vita professionale dei protagonisti, ma persino sulla loro salute fisica e psicologica. Per tutti questi motivi La grande scommessa non è solo una pellicola originale e innovativa dal punto di vista narrativo e cinematografico, valorizzata da interpretazioni maiuscole, bensì un lavoro dal forte valore educativo e sociale che ci mette in guardia, con ironia e sarcasmo, dallo “stufato di pesce”, quello che, sotto un aspetto gustoso e invitante, nasconde gli avanzi che nessun cuoco potrebbe altrimenti mai cucinare.