Il nuovo Bones and All di Luca Guadagnino è in qualche modo un’esperienza in antitesi a quella di Call me by your name: non più un film in cui ogni azione è funzionale all’avvicinarsi dei corpi e allo sfregarsi della pelle, ma uno in cui questa aderenza fisica, questa necessità di mettere a contatto i corpi, diventa una maledizione, qualcosa che provoca tribolazione, sofferenza, lacerazione.
I sensi, specialmente il gusto e l’olfatto, separano e dividono, anziché unire e creare condivisione attorno alla loro comune esperienza. Questo cannibal-movie romantico, contemplativo come un road movie di Kelly Reichardt, rende il cannibalismo un elemento quasi marginale, un dettaglio che colora la relazione amorosa, rendendola magari più difficoltosa, ma non per questo diversa dalle altre.
Venezia 79 | la recensione di Bones and All
Anzi, la giovane protagonista, convinta, come tutti gli adolescenti, di essere unica e speciale, inizialmente non è neanche sfiorata dall’idea che possano esistere altre persone come lei: cannibali per genetica (ma anche cannibali per scelta, forse per assomigliare alla persona che si ama e avere qualcosa in comune con lei).
Maren (Taylor Russell) e Lee (Timothée Chalamet) devono assecondare questa loro pulsione e per sopravvivere devono uccidere, sbranare, provocare dolore nel prossimo. Anche in questo, rivelandosi non molto diversi da quelli “normali”, come i tantissimi left-behind, avanzi, leftovers, del capitalismo americano possono confermare.
Ai margini per via della loro condizione, ma insieme ad altre migliaia di persone nell’America di Reagan e Giuliani, quella dell’Aids, che reprime, condanna, umilia e annichilisce. Il cannibalismo è perciò un dato acquisito, qualcosa che li tiene lontani dal resto del mondo, ma allo stesso tempo li unisce, dà loro una ragione per stare insieme. Bones and All tradisce così le aspettative di chi cerca la truculenza e l’orrore, per tornare ancora una volta sul racconto della giovinezza e di un amore privo di qualsiasi cinismo.
Similmente ai suoi personaggi, è un film che costantemente trattiene la propria fame, decide di non avventarsi con foga sul corpo da spolpare ma invece cerca di trovare un giusto equilibrio e lasciare spazio alla canonicità (anche cinematografica) dell’evento amoroso, che paradossalmente non è più ciò che nasce da un desiderio impellente da soddisfare, ma qualcosa da vivere al meglio quando si è già sazi, quando non ci sono altre voglie che chiedono di essere esaudite.
Il primo film americano di Guadagnino
Come raramente accade nelle opere di Guadagnino, nel suo primo film americano non c’è un ambiente che ingabbia i personaggi o rende difficile il loro avvicinamento (la casa di Call me by your name o la base di We are who we are), ma uno spazio che invece apre delle possibilità anche a chi ha sempre pensato di non poterle mai cogliere.
I due personaggi si muovono in un Midwest mitico, con le sue stazioni di servizio, i motel, i pick-up sui quali dormire, vivere, baciarsi. Luogo di transito per eccellenza, che si attraversa quando si scappa da qualcosa o si cerca di raggiungerla. Lo sguardo su quel paesaggio non è ostentatamente europeo, ma cerca invece un confronto con l’immaginario del cinema che arriva da oltreoceano, quello codificato negli anni Settanta da Badlands, l’ultimo grande road movie criminale. Taylor Russell come Sissy Spacek supera velocemente la separazione improvvisa e definitiva con il proprio padre. E Chalamet, come un giovane Sheen, sembra non percepire su di lui la violenza che infligge agli altri.
Ma, a differenza di allora, non c’è più nulla di quella “rabbia giovane” di Malick, bensì la rassegnazione per un mondo che è stato già mangiato “ossa e tutto” da chi è venuto prima, in cui più si invecchia e più si ha fame. Le nuove generazioni, molto meno voraci di quelle precedenti, attente a lasciare qualcosa per chi verrà dopo, scoprono che, per loro, non esiste più un posto da poter chiamare casa, per cui se lo devono inventare continuamente.
In tutto questo, tentano di liberarsi da quell’insieme gregario gelosamente e aggressivamente chiuso in sé stesso in cui altri vorrebbero inserirli, quelle tribù che hanno nemici da combattere o da cui difendersi, in cui non si creano legami e si è sempre soli, che persino nel linguaggio escludono e incutono paura (emblematico in questo senso il cameo di Michael Stuhlbarg). Così l’allegoria del cannibalismo si riconfigura ogni volta in maniera nuova, indicando varie e diverse sottoculture, almeno fino a quando, sul finale, un personaggio secondario non diventa, tradizionalmente e banalmente, il villain di un film che non ne aveva alcun bisogno.