Wim Wenders torna a maneggiare il 3D firmando un documentario sul celebre artista contemporaneo tedesco Anselm Kiefer, presentato fuori concorso alla 76esima edizione del Festival di Cannes.
Wim Wenders è forse l’unico grande autore a credere per davvero nelle possibilità poetiche della narrazione in 3D, incoraggiando i giovani registi a sperimentare con la tecnologia e spingendo i distributori a non considerarla appannaggio solo del cinema d’azione.
Quest’anno a Cannes, insieme ad Anselm Kiefer, ha presentato il suo ultimo lavoro sulla tridimensionalità: Anselm, un documentario sull’arte del pittore e scultore tedesco. Dopo aver indagato la plasticità del movimento umano in Pina, stavolta l’oggetto della riflessione è la plasticità dell’immagine.
La tecnologia utilizzata da Wenders diventa perciò fondamentale per “aprire” l’opera di Kiefer, mostrando al proprio interno fossili di stati precedenti e reminiscenze che rivelano come, tutt’altro che progressiva e omogenea, la Storia costituisca un assemblaggio di tempi e modelli visivi assai eterogenei.
Ma anche per restituire la complessità del frammento, rendendo riconoscibile, attraverso la stereoscopia, materiali diversissimi per consistenza e texture quali pigmenti, detriti, piombo, cenere, ferro, vetro, paglia, foto, fiori e arbusti, che frequentemente si intrecciano fra loro per ricomporsi in immagini discontinue. Rendere evidente l’estetica del negativo e dell’incompiuto di Kiefer, che meglio si accordava, agli inizi della sua attività, con l’esigenza di affrancarsi dalla mentalità monolitica e onnipotente del regime nazista.
Il 3D conduce così lo spettatore tra i diversi stati “fisici” che lo stesso Kiefer dice di attraversare durante la lavorazione. Prima si è immersi nella materia del quadro, si è tutt’uno con l’esistente, col colore, la sabbia, l’argilla, nell’accecamento dell’istante, in cui non c’è distanza. E poi progressivamente indietreggiando un po’ per cercare di vedere, di distinguere finalmente che cosa si ha davanti. Cercando così di comprendere.
Anselm | un viaggio nella tridimensionalità della materia
L’arte, come dice lo stesso Kiefer, è entelechia, cioè deriva dall’unione perfetta tra il materiale e lo spirituale, anche nelle sue espressioni all’apparenza più rudimentali. Dopo la rivoluzione copernicana l’idea che la Terra, e non il Sole, fosse considerata il centro dell’universo ha smesso di essere valida. All’arte, invece, non si possono applicare gli stessi parametri. Di fatto, un’opera del XX secolo non può pretendere di essere più avanzata rispetto a un’opera del XV secolo. Muovendosi su questa digressione filosofica, Wenders si interroga su cosa significa progresso e rielaborazione.
Il regista tedesco riconosce in Anselm Kiefer il coraggio che lui, forse, non ha mai avuto: quello di confrontarsi in maniera esplicita con la storia del suo popolo. Nel 1980, i dipinti di Kiefer provocarono reazioni di perplessità e biasimo a causa dell’utilizzo di un’ampia casistica di temi connessi allo “spirito tedesco”. Biasimo a cui l’artiste rispose in maniera lapidaria: “Non mi identifico con Nerone o Hitler, ma devo ricreare un poco di quel che hanno fatto per capirne la follia. Perciò faccio questi tentativi di diventare fascista”.
Dallo stesso desiderio di immedesimazione nasce il documentario di Wim Wenders, dalla volontà di comprendere il modus operandi di Kiefer, che emula in parte il progetto dell’alchimia, la sua ambizione di mutare i metalli in sostanza aurea e di risanare infine la caducità della materia e dei corpi mortali. In questo senso, il 3D è la tecnologia più adatta allo scopo, dimostrando, ancora una volta, come la capacità di un grande regista di utilizzare tutti gli strumenti a propria disposizione possa ancora fare la differenza.