Alla Berlinale è stato presentato il nuovo film del regista israeliano Amos Gitai: un’opera surreale, ispirata a Ionesco, capace di dire molto sull’odio di ieri e di oggi.
L’ultimo film di Amos Gitai – chiuso in un condominio che miniaturizza Israele in un pianerottolo e qualche sotterraneo – è una raffinata provocazione intellettuale che tenta di trasformare in un testo militante, ovviamente focalizzato sulla realtà del conflitto israelo-palestinese e sulla paura del terrorismo fomentata per giustificare repressione e occupazione, quello che è il capolavoro di un regista accusato invece dai suoi contemporanei di non essersi mai impegnato in alcun modo in un teatro educativo e politico, quindi brechtiano, ma di essere stato inconsapevolmente fascista, antirivoluzionario.
Anche Paolo Grassi, direttore del Piccolo di Milano, la pensava così, decidendo di ostracizzare Ionesco perché considerato un autore reazionario e rifiutandosi di rappresentare nel più celebre teatro di prosa italiano la prima mondiale di quel testo, Il Rinoceronte, a cui adesso Gitai si ispira. “Ionesco non ha alcuna morale, pone l’uomo al di fuori delle fedi, delle idee, delle ideologie, e questo è folle”, diceva Grassi, rivendicando quella scelta.
Questa ambiguità del testo originale pone però Gitai nella condizione migliore, mettendo bene in chiaro fin dall’inizio come non ci potranno essere risposte definitive alla fine di questo film labirintico in cui la moralità viene ribaltata, delineata con uno stile grottesco e paradossale, in cui le lunghe riflessioni non giungono mai a una conclusione o, ancora meglio, in cui la filosofia non fa altro che aumentare il dubbio.
Allo stesso, tempo, però, il regista israeliano fonda la sua elucubrazione per immagini e movimenti in una delle convinzioni più ferree – e meno citate – di Ionesco, ovvero nel suo essere “violentemente nonviolento”, come meravigliosamente disse per spiegare il suo avvicinamento ai Radicali di Pannella.
Come nel testo originale, anche in Shikun, recitato in tre lingue differenti, l’impossibilità di condividere un linguaggio corrisponde alla dissoluzione del Nomos, di un costituzione sociale che contenga e significhi l’identità. I personaggi finiscono per rimanere intrappolati nell’insensata dialettica delle loro conversazioni e nel maldestro tentativo di affermare costantemente le proprie idee, i propri sistemi di pensiero.
La meravigliosa Irène Jacob, protagonista di questo “gender swap” che trasforma il Bèrenger di Ionesco in una Donna in rivolta, parafrasando Camus, lotta per non trasformarsi, per resistere alla rinocerontite imperante. Lotta per affermare la sua voglia di esistere, nel senso etimologico della parola exsistĕre, ovvero la voglia di “stare fuori” da ogni tipo di dottrina o fanatismo, dai falsi schieramenti creati dal momento storico o dai vari manifesti rinoceronteschi.
Ma chi sono davvero i rinoceronti? I giovani che combattono per i diritti, che vedono in Israele uno Stato canaglia, oppure i vecchi, radicalizzati nel loro odio e pronti anche a uccidere per affermare la propria superiorità? Questo Gitai non ce lo dice mai chiaramente, lasciando anche intendere che i due movimenti che agitano il suo film mutualmente si alimentano, in un processo continuo di fabbricazione e consumo.
Quello che separa gli uomini dai rinoceronti, d’altronde, è solo un costume. E come tutti i costumi può essere indossato anche per “camuffarsi”, per celare le proprie vere intenzioni, per infiltrarsi in comunità diverse dalla propria e non soltanto per rendere esplicita la propria identità.
“Il simbolico, generatore di smisurato e di vertigine, nell’attuale terra d’Israele, è troppo occultato dall’opacità che ugualmente significano sia la guerra che la pace”, scriveva Ceronetti. Resta la violenza dello scontro coi vicini, che traccia una strada senza fine di vittime, che si percorre ormai con lo sfinimento e la rassegnazione di chi spera di delegare ai rinoceronti – qualunque cosa essi siano – una possibile soluzione.