Bif&st 2017, Le divan de Staline: Depardieu è il Generalissimo nel film di Fanny Ardant

Nel 1999 il grande regista Aleksandr Sokurov vinse il premio per la miglior sceneggiatura al 52º Festival di Cannes con il suo Moloch. In quel lavoro il cineasta russo mise in scena la vita privata di Adolf Hitler ed Eva Braun, riprendendoli in un momento di intimità nel castello del Berghof, tra le montagne della Baviera. E proprio in uno “château” tra gli alberi ci porta la regista e attrice francese Fanny Ardant con il suo nuovo Le divan de Staline. Al centro della analisi, però, non c’è più la figura del Cancelliere del Reich ma quella di Iosif Stalin

Il pretesto da cui prende il via la storia (ed il romanzo da cui è tratta) è il ritrovamento del vecchio divano utilizzato da Freud nelle sue sessioni di terapia a Londra. Incuriosito dalle teorie del “ciarlatano”, il leader russo costringe la sua compagna Lidia ad organizzare delle fittizie sedute di psicanalisi, per poterle raccontare i propri sogni e i propri ricordi. A questa linea narrativa si intreccia quella dell’artista Danilov, giunto alla villa perché tra i candidati alla realizzazione di un monumento in onore di Stalin da ergere sulla Piazza Rossa. 

Emmanuelle Seigner e Paul Hamy in una scena del film

Donne in scena (e fuori)

Nonostante il peso del protagonista, questo lavoro della Ardant non vuole parlare del ruolo storico del Generalissimo né della sua psicologia. Le divan de Staline è un film sulle donne e con le donne, fuori e dentro lo schermo. Da quelle che tormentano il comandante nei suoi sogni notturni a quelle che ancora segnano irrimediabilmente la vita dell’artista, fino alla Lidia di Emmanuelle Seigner, una donna “così libera da decidere quando morire” come Nadezhda Alliluyeva prima di lei. Le divan de Staline comincia con una inquadratura che pare in bianco e nero, con una nebbia densa che copre un maestoso cancello, e si conclude con la stessa scelta cromatica. E di nuovo in un paio di occasioni la luce che circonda Lidia scompare per lasciarla sola nella oscurità, perché “i colori sono prerogativa dell’anima”, e quando questa viene a mancare non ci sono più sfumature. 

Verboso come la psicanalisi

Fanny Ardant fa parlare costantemente (e troppo) i suoi personaggi, che si concedono persino digressioni estenuanti sulla concezione di arte, senza però che venga mostrato nulla di veramente “artistico” attraverso le immagini. Gérard Depardieu, con quel viso sgraziato e la sua massiccia corporatura, è meraviglioso nel ruolo del leader russo proprio per essere così distante dalla somiglianza estetica. Non è un caso che la scena più riuscita de Le divan de Staline sia proprio quella in cui Danilov sovrappone alla foto del vero capo del Partito Comunista quella di Depardieu, con tanto di baffoni finti sul volto. Un momento straniante e quasi comico, e per questo potente. Da lì in poi, però, la storia comincia a girare su se stessa e la noia pian piano diventa la vera protagonista della narrazione. Gli occhi degli spettatori, come quelli dei “compagni” costretti da Stalin a partecipare alle sue sessioni cinematografiche, iniziano a chiudersi. Le divan de Staline è verboso come la psicanalisi, ma per nulla incisivo come il buon cinema.