Blackhat, la recensione del cyber thriller di Michael Mann

A sei anni da Nemico Pubblico, Michael Mann torna al cinema con il cyber thriller Blackhat, interpretato da Chris Hemsworth e Viola Davis. Il grande regista americano realizza un’opera metropolitana che, per stile e atmosfera ricorda il suo cinema del passato, come Collateral e Insider – Dietro la Verità.

TRAMA BLACKHAT

Un attacco informatico provoca il surriscaldamento e l’esplosione di una centrale nucleare nei pressi di Hong Kong. In seguito c’è un attacco informatico quasi identico ai danni della borsa di Chicago che fa schizzare all’improvviso il prezzo della soia. Le autorità cinesi e americane, non senza una certa riluttanza, comprendono che è il caso di collaborare per fermare chiunque ci sia dietro questi due crimini. Il capitano Dawai, arrivato negli Stati Uniti, convince l’FBI a servirsi di Nick Hathaway, un criminale sui cui si sono basati i criminali e che sta scontando una lunga condanna in un penitenziario di massima sicurezza. Liberato ma controllato, sia a vista che elettronicamente, Hathaway spinge l’indagine così in là da essere costretto a proseguirla anche da solo per cercare di guadagnarsi la propria libertà.

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RECENSIONE

Come nel recente Il Quinto Potere di Bill Condon, in questo film la tecnologia diventa il campo di battaglia nel quale si nascondono menti terroristiche che operano nell’ombra, seduti davanti ad un computer. La grande paura del secolo attuale è proprio la difficoltà di localizzare le cellule terroristiche che possono colpire un paese, una città o un edificio in qualsiasi momento, pur trovandosi a migliaia di chilometri di distanza dal luogo prescelto. Mann affronta questa paura, raccontando una storia che sceglie il registro del noir e del thriller più classico, costruendo il film su una tensione palpabile ma sottile, che mantiene l’attenzione dello spettatore dall’inizio alla fine. Chi si aspetta una serie importante di scene d’azione, potrebbe rimanere deluso. Ma la scelta del regista di portare il film su un piano più psicologico e intricato come per il suo Collateral, lasciando spazio a sparatorie e inseguimenti solo in pochi momenti, risulta vincente. I personaggi si muovono velocemente tra password, codici indecifrabili di programmazione informatica e numeri, per stanare la mente criminale che sta progettando il colpo più grande e definitivo. In Blackhat la realtà è destrutturata e l’indagine procede tra i pixel e le memorie virtuali, sfociando solo in un paio di scontri diretti tra buoni e cattivi. Da non perdere la scena del confronto finale, originale e unica per ritmo e pathos, tra le luci e i colori di una città asiatica.

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La telecamera di Mann distrugge elegantemente lo spazio tra i corpi e gli oggetti, senza sacrificare la coerenza spaziale e l’architettura del film brilla di un virtuosismo sincero e intenso. Un po’ forzata e stucchevole l’insistenza delle riprese digitali all’interno delle apparecchiature elettroniche, che il regista utilizza come titoli di testa, e richiama poi in seguito anche all’interno del film. La corsa interminabile tra i meccanismi e i cavi che popolano il cuore dei computer poteva essere originale e piacevole solo come stratagemma per l’inizio del film, ma in questo modo risulta ripetitiva e posticcia. Tuttavia con Blackhat, Michael Mann riesce a mantenere la sua chiave stilistica inalterata, portando sullo schermo una storia intrigante e coinvolgente, che segue un ritmo dinamico e sinuoso. Al centro la sfida di un ex studente MIT diventato hacker e truffatore, chiamato al riscatto per se stesso e le persone che gli vogliono bene. La sfida dell’hacker è mettersi alla prova e rompere dei muri invalicabili. Chris Hemsworth nei panni di Hathaway, permette allo spettatore di vivere questa cyber avventura come una caccia al colpevole avvincente e curiosa.

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