Brave ragazze, un cast corale tutto al femminile per un colpo da “vere” donne

brave ragazze

Gaeta, primi anni ’80. Anna (Ambra Angiolini) è una madre single, con un figlio da mantenere e troppi lavori precari da gestire per sbarcare il lunario. Maria (Serena Rossi) invece non ha figli, ma in compenso ha un marito violento che non sa come tenere a bada, e che in cuor suo spera passi a miglior vita. Chicca (Ilenia Pastorelli) e Caterina (Silvia D’Amico) sono sorelle, unite ma diverse, tanto scafata ed estroversa la prima quanto impacciata  e insicura la seconda. Quattro storie (differenti) di donne tutte ugualmente insoddisfatte del loro presente e in cerca di un futuro migliore. E in questa fotografia di diffusa insoddisfazione, l’idea più che classica di mettere a segno un colpo in banca sarà in grado di risvegliare i loro sogni  incompiuti e le loro coscienze dormienti, inducendole a indossare abiti maschili e impugnare pistole pur di tentare di dare una svolta alle loro vite. Ma l’imprevisto ci si mette sempre di mezzo, e in questo caso avrà il volto fascinoso del commissario Morandi (Luca Argentero).

brave ragazze

Alla sua opera seconda Michela Andreozzi (l’opera prima del 2017 è Nove Lune e Mezza) dirige Brave ragazze, che traduce sul grande schermo la vera storia delle Avignonesi, dette anche le Amazzoni, ovvero un gruppo di donne della provincia francese mosse per disperazione a impugnare le armi e portare a casa quel gruzzolo che avrebbe dovuto cambiare a tutte loro la vita. Una storia tanto simbolica quanto rocambolesca nella realtà che non trova però in “questa” finzione una sua soddisfacente riproduzione cinematografica. Su una sceneggiatura (a cura della stessa Andreozzi con Alberto Manni) su più versanti debole e inadeguata, incapace di tenere saldo il timone una storia a suo modo stravagante ma interessante, e impiegando malamente anche un cast di volti noti (Ambra Angiolini, Luca Argentero, Max Tortora) che finiscono per essere macchiette di personaggi smarrite in un teatrino senza autore e autorialità alcuna, Brave ragazze si attesta infatti come il tentativo fallito di raccontare una storia avventurosa tutta al femminile con il giusto guizzo estetico e piglio narrativo.

E, invece, sequela di scene slegate e scollate che non seguono quasi mai il giusto schema di causa effetto, infarcite di dialoghi scricchiolanti che stentano a restituire la profondità reale e (a)morale della storia, il film della Andreozzi spreca le sue tante carte in un calderone di inadeguatezza in cui, infine, confluisce un po’ tutto. Difficile a conti fatti empatizzare con queste donne belle di natura e ladre per necessità, mutuate in parte da un immaginario quasi fumettistico alla Occhi di gatto, che restano invece su schermo palesemente personaggi di finzione e non trovano mai il peso esistenziale di donne realmente immerse nella drammatica realtà di una famiglia da sfamare e una dignità da salvaguardare; una realtà (che purtroppo) appartiene sempre a troppe brave ragazze diventate “cattive” per contingenze e/o necessità.  

Alla sua opera seconda Michela Andreozzi dirige Brave Ragazze, commedia corale dal cast nutrito e di volti noti che manca però di intercettare e riprodurre gli elementi più crudi e interessanti del fatto di cronaca cui s’ispira, ovvero un gruppo di amiche della Provenza francese improvvisatesi ladre pur di tentare la svolta della vita.

By Elena Pedoto

In me la passione per il cinema non è stata fulminea, ma è cresciuta nel tempo, diventando però da un certo punto in poi una compagna di viaggio a dir poco irrinunciabile. Harry ti presento Sally e Quattro matrimoni e un funerale sono da sempre i miei due capisaldi in fatto di cinema (lato commedia), anche se poi – crescendo e “maturando” – mi sono avvicinata sempre di più e con più convinzione al cinema d’autore cosiddetto di “nicchia”, tanto che oggi scalpito letteralmente nell’attesa di vedere ai Festival (toglietemi tutto ma non il mio Cannes) un nuovo film francese, russo, rumeno, iraniano, turco… Lo so, non sono proprio gusti adatti ad ogni palato, ma con il tempo (diciamo pure vecchiaia) si impara anche ad amare il fatto di poter essere una voce fuori dal coro...

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