But I Am Not, il regista Luigi Alberton parla del suo ambizioso progetto

Luigi Alberton, artista e creativo italiano, ha deciso di impegnarsi nella realizzazione di un film ambizioso e coraggioso che vuole dar voce ad una parte di storia del nostro paese, poco nota e quasi dimenticata. Avendo avuto per le mani una lettera-testamento, egli è venuto a conoscenza di una battaglia che si è svolta il 18 ottobre del 1915 sul Sass De Stria, e ha deciso di raccontare la mitica impresa di un gruppo di uomini guidati dal sottotenente Fusetti, costruendo intorno alcune storie di finzione che arricchiscono e rendono ancora più coinvolgente il film, intitolato But I Am Not. Prendendo ispirazione da una storia vera che merita di essere raccontata, Alberton e la sua troupe tecnica e artistica di alto livello, stanno girando in questi giorni il primo trailer ufficiale del film, mentre da pochi giorni è attiva la campagna crowdfuding che chiede a chiunque voglia partecipare, di dare il proprio contributo alla produzione di un progetto interessante, educativo e originale: http://www.butiamnot.com/it/crowdfunding.html. In una recente intervista, l’autore e il regista di But I Am Not ci ha raccontato la sua idea del progetto, i temi che saranno affrontati e le linee guida che seguirà per le riprese e la realizzazione del film.

Hai un percorso atipico, e sembra che la parola chiave sia “ricerca”.

Credo di sì. Ricerca e sperimentazione. Mi piace esplorare forme espressive libere dai generi codificati e la mia ricerca va “per sottrazione”, mira alla sintesi e all’essenza. Per questo finora ho trovato nel cortometraggio la mia dimensione ideale. L’esempio migliore è “La Giostra”, che per me e il mio team di Immaginario Sonoro è stato il progetto finora più ambizioso, da un lato per i valori che esprime e per la ricerca espressiva, dall’altro per la sperimentazione delle DSLR come unico strumento di ripresa (nel 2009, quando l’abbiamo girato, credo che non ci fossero altri progetti di uguale portata). Anche “Flash – Vivi il mondo in 3D” è stato una bella avventura: una sperimentazione “senza rete” della stereoscopia 3D con DSLR, applicata a un nuovo format di documentario per la divulgazione culturale.

E ora perché un lungometraggio?

Mi piace cambiare. Voglio lasciare la sperimentazione “senza rete” e cimentarmi con i registri narrativi del lungometraggio. Per me il genere storico-drammatico è una strada nuova. La storia ci costringe ad andare oltre l’orizzonte, ci misura rispetto alla continuità e al presente. Trovo tutto questo molto stimolante. Ma voglio raccontarlo “a modo mio”, creando dei cortocircuiti tra passato e presente.

luigi2Cosa significa “raccontare a modo mio”? Qual è il tratto principale del tuo stile narrativo?

Forse perché nasco come musicista, per me il suono ha la stessa potenza narrativa dell’immagine. Anzi di più, perché il suono evoca ciò che l’occhio non vede e tocca corde profonde del sentire. Quindi le mie storie sono racconti “per immagini e suoni”. E le immagini mantengono sempre un che di pittorico, nella luce, nella composizione… non sono mai “rubate” o improvvisate. In tutto questo, la parola detta arriva per ultima, a colmare eventuali vuoti narrativi. E quindi ogni parola ha un suo peso specifico, è necessaria. Ammiro Woody Allen, ma è esattamente agli antipodi rispetto al mio modo di sentire. Sottrarre parole vane credo sia necessario. Ma richiede al pubblico più attenzione, più partecipazione…

La sceneggiatura è scritta a quattro mani…

Sì. Da un lato amo il lavoro di squadra. So per esperienza che 1+1 non fa 2, ma molto di più. Dall’altro, mi piace il gioco dei punti di vista: il mio approccio (immaginativo e maschile) e la sensibilità di Maria Cristina Leardini (più narrativa e femminile) creano insieme un gioco di interazione molto ricco. A volte è “burrascoso”, ma con esiti sempre superiori a 2, per così dire.

Nel film diversi personaggi possono essere visti come protagonisti… Qual è il punto di vista principale?

Mi verrebbe da dire che ci sono più punti di vista, come sempre succede nella vita… Ma la chiave del film è nel personaggio di Alessio: giovane, inquieto, irrisolto, confuso dal frastuono del suo mondo. Noi spettatori seguiamo Alessio nel suo percorso dentro di sé, nel suo tentativo di dare nome e forma all’inquietudine. Ci riconosciamo in questo cercare brancolante. Alessio diventa una sorta di Virgilio al contrario: drammatico e conflittuale, senza risposte, inconsapevole. E la risposta che troverà per sé, in una specie di cortocircuito temporale, sarà solo una delle risposte possibili: a ciascuno di noi il compito di cercare la nostra.

luigi3Possiamo considerare anche il Museo come uno dei protagonisti?

Il Museo “Forte Tre Sassi” è forse l’interprete principale, il “collettore”, il punto di raccordo tra passato e presente. Questo Museo ha qualcosa di speciale: non è una semplice esposizione ragionata di cimeli, ma è una sorta di sacrario. Nella Grande Guerra era una fortificazione austro-ungarica e la guerra si è intrisa nella pietra delle sue pareti. C’è freddo, dentro al Museo, c’è silenzio. Ci sono le voci mute di quei soldati, c’è la loro presenza. Ed è questo che voglio raccontare, ma sottovoce, con rispetto, senza retorica. Voglio lasciare affiorare tracce di quelle voci mute. E in questo, è la potenza evocativa del suono (non della parola), che mi aiuterà a rendere presenti la paura, il freddo, la nostalgia, la solidarietà, lo spirito di sopravvivenza, lo smarrimento… In una parola: gli uomini.

Come racconti la guerra?

La racconto dal punto di vista degli uomini, senza retorica, senza eroismi hollywoodiani. La battaglia al Sass de Stria del 18 ottobre 1915 è un episodio minimo, poco rilevante nello sviluppo del conflitto e “poco spettacolare” secondo i canoni del cinema. Ma è proprio per questo che vogliamo raccontarlo: era questa l’assurda quotidianità della guerra. Non c’era grande consapevolezza politica, se non in pochi: gli uomini combattevano principalmente per tornare a casa vivi, dalle famiglie, dagli affetti. Il concetto di patria era troppo astratto. E anche il concetto di “nemico” era difficile da comprendere, soprattutto in queste terre di confine, dove i “nemici” avevano condiviso per generazioni luoghi, abitudini, lingua, commerci… Nel film, questa fratellanza profonda, estranea alle logiche della politica, emerge nell’episodio della cattura del tenente Stradal. Quindi, il racconto della battaglia è realistico (grazie alla preziosa consulenza di Franz Brunner), ma ha anche una dimensione metafisica e universale, che va al di là del singolo fatto e racconta l’Uomo.

Quali sono i temi principali del film?

A livello narrativo, il nucleo centrale del film è la battaglia al Sass de Stria del 18 ottobre 1915, con uno spaccato della vita di alcuni dei soldati prima che la guerra li portasse via. Ma anche in tempo di pace la vita quotidiana non è meno battagliera e si rivela una lotta continua: la lotta a cui ciascuno di noi è chiamato – per essere, e per divenire. Ci sono poi altri “strati” di significato, altri temi a me cari. Il primo è la memoria del passato. Il passato è parte di noi, è presente. Prendere coscienza di questo, riconoscere la continuità tra passato e presente, qui è ora, è un passo fondamentale per il nostro equilibrio e per la nostra evoluzione, soprattutto adesso, in questa società twittante e sempre più sfilacciata, dove tutto si appiattisce nell’istante presente, senza avere memoria del passato né prospettiva del futuro. Anche raccontare il Museo, l’ascoltare in silenzio la voce muta degli oggetti che vi sono esposti, va in questa direzione. E anche la reincarnazione, che è una possibile chiave di lettura del film (pur restando sempre sul filo dell’incertezza tra sogno, allucinazione, rivelazione), vuole esprimere proprio questo valore: noi siamo il nostro passato. Azione e re-azione, causa ed effetto: sono leggi della Natura e quindi anche dell’uomo, se tornerà a imparare a riconoscerle.

Un altro tema, che affronto per la prima volta, è quello dell’amore omosessuale, che uno dei protagonisti vive come colpa inconfessabile, tormento, dannazione, tanto da tenerlo segreto persino all’amato. Il titolo stesso richiama questa dimensione individuale fondamentale, la negazione di sé che nasce dalla mancanza di riconoscimento del nostro essere più profondo: “Noi non siamo” ciò che gli altri vedono (o vogliono vedere) di noi.

cast

Per concludere, vuoi dirci qualcosa del tuo team?

Il nucleo più “antico” del team è quello di Immaginario Sonoro, il centro di ricerca artistica che ho fondato nel 2007 e produttore indipendente di questo film: siamo persone che lavorano insieme da tanto tempo e che si sono scelte non solo per le qualità professionali, ma anche per la condivisione dei valori e della visione dell’arte. Poi però, con una naturalezza che continua a stupirci, si sono aggregate intorno al progetto del film numerose altre persone – tecnici e artisti, appassionati di storia e giovani professionisti – con passione ed entusiasmo. Non mi dilungo a parlare delle qualità professionali e umane di tutti: ci vorrebbe troppo tempo! Ma il principio alchemico – semplice e meraviglioso – va detto…

C’è un gruppo di persone unite da una progettualità comune; ciascuno mette in campo le proprie risorse, in relazione con gli altri; c’è condivisione (di conoscenza, di idee, di valori) senza competizione; c’è un “capo-progetto” che si mette al servizio del gruppo per canalizzare e valorizzare le singole competenze; c’è arte e Bellezza; c’è il piacere di fare insieme… Cos’altro è se non un modello di società ideale? E dirò di più: funziona.