Cannes 2012: Amour, recensione

Due anni dopo la palma d’oro per Il nastro bianco, Michael Haneke torna in concorso al Festival di Cannes con una storia d’amore. Amour, per l’appunto, racconta il legame tra Georges (Jean-Louis Trintignant) e Anne (Emmanuelle Riva), coppia di ottantenni della borghesia francese, messa alla prova dall’ictus che colpisce lei. Severo, asciutto e soffocante come solo un film di Haneke sa essere, Amour riesce a descrivere all’interno e attraverso le forme a cui l’autore ci ha abituato, l’unione profonda dei due, e il dramma di una vecchiaia che inesorabilmente ti sottrae ogni cosa. Haneke non si allontana mai dai suoi personaggi, ma non invade neanche il loro campo.

Costantemente presenti e soli, incastrati in un appartamento da cui noi non usciamo mai, percorrono gli ultimi passi assieme con trattenuto dolore, e spietata consapevolezza. Le uniche fughe dalle mura sono, come spesso accade in Haneke, nella mente, nel ricordo,e nel sogno. Unica presenza a entrare nella loro dimensione, a metterli in contatto con l’esterno, è la figlia ( Isabelle Huppert). Non una sbavatura, non un incertezza. Si viene lentamente assorbiti dalla quotidianità dei personaggi fino alla fine. Inesorabile come la decadenza fisica e mentale che sono costretti a vivere i protagonisti. Due interpretazioni quelle di Trintignant, (di cui si sentiva la mancanza), e della Riva che, forse anche per estrema immedesimazione, lasciano senza parole.