Chi “cita” paga, ora anche in arte

 

 

Walter Benjamin aveva colto il problema sin dal 1936 quando, sulle pagine de L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità, aveva sostenuto la “pericolosità” dell’introduzione, a partire dal ventesimo secolo, delle nuove tecniche di riproduzione e diffusione delle opere d’arte. Il filosofo tedesco affermava che, con l’avvento del cinema e della fotografia, si era perso il concetto di autenticità dell’opera d’arte, in quanto nella fruizione di un film o di una foto non sussiste nessuna differenza tra autentico e copia. La responsabilità di tutto questo stava, per Benjamin, nell’avvento della cultura di massa.
A distanza di settantasei anni il problema torna a riacutizzarsi e, questa volta, tocca anche un punto nodale: il copyright. Lo scenario si fa complicato: per la prima volta un giudice statunitense ha emesso una sentenza che condanna un artista per aver violato il copyright, appropriandosi dell’immagine di un altro artista. Negli Usa, il Copyright Act, la legge sul diritto d’autore, prevede una clausola, il fair use, con cui si stabilisce la lecita citazione non autorizzata di materiale altrui nel caso in cui, dalla rielaborazione, si giunga a qualcosa di utile per il progresso artistico e culturale. Evidentemente il giudice, la signora Batts, deve aver ritenuto di scarso valore le opere di Richard Prince, esponente della Appropriation Art, corrente che fa della citazione artistica una forma di pensiero e di arte. Ebbene, il fotografo francese Patrick Cariou, la parte lesa, non deve essere un amante del citazionismo, tanto da aver considerato un furto l’opera di Prince che riadattava, sotto forma di collage e dipinto, il suo scatto della serie Yes Rasta. L’azione legale, intrapresa nel 2010, non è solo un duello a due, ma sta mettendo a dura prova anche collezionisti, artisti e galleristi, poiché la sentenza potrebbe generare dure riflessioni sul concetto di diritto d’autore. E che dire di un artista come Prince che ha fatto della rielaborazione il proprio cavallo di battaglia? Tutto questo farà nascere sicuramente molti dibattiti e la vicenda sta avendo largo seguito soprattutto sulle pagine del New York Times.
Chissà cosa sarebbe successo se questa sentenza ci fosse stata nel 1962 quando Warhol rese una semplice lattina di zuppa Campbell un capolavoro dell’arte? Oppure quando Marcel Duchamp, nel 1919, si appropriò dell’icona del rinascimento fiorentino, la Gioconda e segnò dei baffetti provocatori sulla sua riproduzione fotografica, dando un titolo all’opera L.H.O.O.Q. dalla dissacrante pronuncia? L’arte contemporanea, probabilmente, oggi non esisterebbe. D’altra parte, Cariou avrà pensato a quanto sia ingiusta la vita, visto che Prince per le sue “manipolazioni” guadagna milioni di euro, tanto che le sue opere sono state acquistate sul mercato fino ad un valore di due milioni e mezzo di dollari, mentre un fotografo ha difficoltà a piazzare i suoi scatti in un mondo in cui tutti sono fotoreporter senza pellicola. È la globalizzazione, Cariou. È la cultura di massa, caro Cariou. Ma, da tutta questa storia, una cosa è chiara: ancora non è chiaro cosa sia un’opera d’arte. E’ o non è opera d’arte la “ri-fotografia” di Prince? È da qui che, forse, bisognerebbe partire per poter giudicare un’opera. E non dall’aula di un tribunale.