Il nuovo progetto dei fratelli D’Innocenzo, Dostoevskij, presentato alla Berlinale 74, è a metà tra il loro cinema e qualcosa d’innovativo. Non è un film, non è una serie, è più un romanzo come preferiscono definirlo loro.
Da quando l’anno scorso il Festival di Berlino ha aperto le porte alle serie tv, l’impronta italiana ha subito lasciato il segno. Dopo aver vinto con The Good Mothers nel 2023 (serie di Disney+), il nostro paese quest’anno ha proposto ben due contenuti televisivi.
Da un lato troviamo Supersex di Netflix e dall’altro Dostoevskij targata Sky Original. Quest’ultima è quella che oggi affronteremo e che vede Fabio e Damiano D’Innocenzo, ormai habitué della Berlinale, regalarci un romanzo su pellicola. La serie uscirà prima al cinema divisa in due parti per poi atterrare su Sky e Now Tv.
10 minuti per il plot, 291 per elaborare il tutto
“Ci abbiamo messo dieci minuti a scrivere il plot, quando da Sky ci è stato chiesto un prodotto noir/thriller.” Così hanno esordito i gemelli in una intima mini press a cui abbiamo partecipato in quel di Berlino. Il racconto infatti vive tra differenti sfumature.
Da un lato ci sono le tinte thriller, poi d’improvviso diventa un giallo investigativo dal sapore noir contemporaneo e qua e là condisce il tutto con spolverate d’ironia e una buone dose di dramma. Enzo Vitello è un detective della polizia alla ricerca costante, quasi maniacale, di un serial killer. Dalla squadra viene chiamato Dostoevskij questo assassino seriale, per l’abitudine che ha di lasciare sempre sulla scena del delitto una lettera.
Questi manoscritti sono totalmente privi d’empatia, spesso prolissi ed elaborati con linguaggio aulico. I multipli omicidi porteranno dunque l’agente a complicate indagini che dovrà però risolvere in parallelo a una vita non facile. Il rapporto difficoltoso con la figlia, i nuovi colleghi e uno stato mentale instabile.
La possibilità di cambiare tra tormento e oscurità
“Sky ci ha dato l’opportunità di realizzare qualcosa che non aderisca ai modelli preconfezionati di oggi. Abbiamo quindi creato un romanzo sulla possibilità di cambiamento, di scelta, ecco di questo parla la serie.”
Sono chiare e totalmente consapevoli le parole di Fabio, sull’intento del loro nuovo lavoro. Di certo non svanisce mai l’interesse nello scavare l’intimo umano, quel denso sottosuolo difficile da vedere ma che sono tanto bravi a raccontare.
Dostoevskij però, a suo modo sa anche distanziarsi dal loro precedente cinema, toccando una zona non così comfort.
Più ruvido, scarno, spoglio nella messa in scena, mette da parte la ricerca estetica di Favolacce o America Latina concentrandosi sul realismo, su quel contenuto narrativo che arrivi diretto senza filtri o patinature del caso. Temi come la depressione o lo straniamento dal proprio stato emotivo, li abbiamo già visti sviluppare dai f.lli D’Innocenzo in maniera più o meno diretta, ma qui si avvertono come necessari, istintivi.
Un protagonista perfetto
“Tanto è difficile avere talento, tanto è difficile accorgersi del talento” dice Damiano intervenendo sul discorso attoriale. “Arrivavano sul set due ore prima per rivedere le scenografie e finalizzare ogni dettaglio ed erano gli ultimi ad andare via” lo rimbalza Filippo Timi, complimentandosi con i registi per la loro professionalità. Guardando Dostoevskij è facilmente intuibile quanto la presenza scenica di Timi sia fondamentale nell’arricchire la resa finale.
Lui che nel progetto ha creduto fin da subito, come ha raccontato, e che per l’esagerata voglia di lavorare con i D’Innocenzo, ci si è tuffato senza alcuna riserva. Supportato poi di certo da una brillante Carlotta Gamba e dal resto del cast, il risultato che emerge è avvincente ed esaustivo.
Dostoevskij, fuori moda come prerogativa
“Essere fuori moda era una nostra prerogativa” questo hanno dichiarato senza mezzi termini i registi, continuando poi sul loro principale obiettivo in termini di fruizione: “noi chiediamo allo spettatore un trasporto attivo, non di stare sul divano a scaccolarsi”.
Limpido e onorevole, seppur tinto d’ironia, è dunque lo scopo dei D’Innocenzo che raccontano questa volta una storia criminale alla True Detective (parole loro), tra situazioni lavorative da affrontare e dinamiche personali da sciogliere. Un contesto inospitale, tetro e desolato incornicia come in buona parte tutto il loro cinema, una sorta di pessimismo cosmico Leopardiano.
Vivere è come una maledizione che porta l’individuo a questa sofferenza cronica. “Iniziare a far conoscere al pubblico l’atmosfera, i luoghi, i volti immersi in un inverno malinconico che sembra non avere mai un inizio e mai una fine” racconta Fabio.
Difficile da digerire, grandiosa da elaborare
Dostoevskij
è dunque una porzione di vita umana più che una serie poliziesca. Una sorta di viaggio per esplorare sé stessi attraverso il protagonista, calandosi in un tessuto narrativo scomodo. I lati umani più oscuri, fratturati dalle esperienze ombrose vissute e troppo difficili da fronteggiare.
Droga e pillole sono l’assuefazione in un mondo marcio senza apparenti prospettive, ma la voglia di un rapporto padre/figlia può salvare il salvabile forse. Non importa se si cominci da semplici giochi di parole mangiando un bombolone a colazione, l’importante è che si trasformi in un delicato tentativo di riavvicinamento.