Cannes 74, intervista a Zhao Liang: “Come ho realizzato il mio film tra Chernobyl e Fukushima”

La sezione Cinema for the Climate organizzata per la 74esima edizione del Festival di Cannes ha ospitato I’m so sorry, il nuovo film (ma sarebbe meglio dire “saggio per immagini”) di Zhao Liang, già in Concorso al Festival del Cinema di Venezia con l’acclamato Behemoth. La nuova opera del cineasta cinese riflette sulle conseguenze dell’energia nucleare, cominciando dai danni causati sull’ecosistema e raccontando poi il disperato tentativo di quelle pochissime persone che, nella zona di esclusione di Chernobyl, così come nelle zone più vicine al luogo del disastro di Fukushima, hanno tentato di rimediare con le loro singole forze, ripartendo letteralmente dal proprio orticello, a qualcosa di estremamente più grande di loro.

Zhao Liang ha raccontato a NewsCinema le difficoltà che ha dovuto affrontare nel realizzare le numerose scene del suo nuovo film nelle zone di esclusione di Chernobyl e Fukushima e le sensazioni provate ascoltando le testimonianze delle persone che hanno deciso di rimanere a vivere in quelle aree in completa solitudine.

L’idea del film nasce da una esperienza personale. Puoi dirci qualcosa a riguardo?

Nel 2017 stavo effettuando delle ricerche per un nuovo film nella mia città natale di Dandong, nella provincia di Liaoning. Mentre stavo riposando a casa, il lampadario e il ventilatore hanno cominciato ad oscillare e l’intero edificio a tremare. Pensavamo fosse un terremoto, ci siamo spaventati e mia nipote ha trascinato immediatamente la nonna al piano di sotto. Solo il giorno successivo abbiamo appreso dalla stampa estera che si trattava di una bomba atomica lanciata dalla Corea del Nord. La distanza tra il luogo dell’esplosione e Dandong era di circa 450 chilometri. Il frammento del lampadario tremolante presente nel film è ispirato a questa esperienza personale, che è stata poi anche la ragione per cui ho deciso di realizzare l’intero progetto. 

Quali sono state le difficoltà maggiori che hai dovuto affrontare durante le riprese nelle zone di esclusione e nelle aree contaminate? 

Poiché non c’era protezione contro le radiazioni, il massimo che potevamo fare era prevenire l’inalazione di particelle che trasportavano radiazioni nel corpo. Portavo sempre con me un Contatore Geiger per calcolare la quantità totale di radiazioni. Se superava il valore entro un certo periodo di tempo, dovevamo andarcene. Pertanto, abbiamo dovuto girare il più rapidamente possibile nelle aree ad alta radiazione. Ad esempio, nelle aree incontaminate di Fukushima, la radiazione era circa 30 volte superiore al normale. A Chernobyl invece, mi sono fatto aiutare da una guida esperta che conosce ogni angolo delle zone ad alta radiazione, che sono molto pericolose se si rimane troppo a lungo senza un contatore Geiger.

Nella centrale nucleare che sta per essere smantellata in Germania (una operazione che richiederà ancora diversi anni, ndr), dovevamo cambiarci i vestiti ogni volta che entravamo e uscivamo dal sito. Il tempo di ripresa è stato anche lì molto limitato, a causa delle operazioni di svestizione e vestizione che ne assorbivano molto. Anche l’attrezzatura fotografica doveva essere regolarmente controllata. In alcune aree, il treppiede non poteva toccare il suolo, perché c’era la possibilità di far uscire così qualche traccia di polvere. Anche i lavoratori dovevano seguire rigorosamente ogni procedura. I loro corpi vengono trafitti da proiettili invisibili ogni giorno: mi chiedo cosa li motivi a rimanere e a lavorare lì.

Su una piattaforma di cemento nell’ex sito di test nucleari sovietici in Kazakistan, la mia cinepresa non funzionava. Registrava per quattro secondi e poi si spegneva. Quando ho spostato la camera a due metri di distanza dalla piattaforma di cemento, sono stato in grado di filmare normalmente e mi sono chiesto se quel problema fosse dovuto alla presenza di radiazioni. Più tardi, di nuovo, in macchina, il mio contatore Geiger ha cominciato a suonare. Era molto rumoroso. Ho controllato le mie scarpe e c’era del materiale nero carbonizzato simile al silicone sotto la suola. Me ne sono sbarazzato rapidamente e sono tornato in macchina. Il contatore Geiger è diventato silenzioso. C’era sempre molta apprensione quando mettevamo piede su quelle aree. 

Quanto tempo hai passato con i solitari abitanti delle zone di esclusione? Cosa ti ha colpito di loro al punto da filmarli per lunghi minuti, in una estenuante sfida con il loro sguardo?

Non ho potuto spendere molto tempo con loro, perché nelle zone contaminate mi erano stati concessi solo quattro giorni di riprese alla settimana. Con ciascuno dei protagonisti, ho avuto quindi solo qualche giorno di tempo. Quello che mi ha colpito di loro è stato il profondo attaccamento alla casa in cui sono cresciuti e invecchiati, il loro ottimismo e il loro amore. Quando ho incontrato Maria, nella zona di esclusione Chernobyl, ho percepito una profonda solitudine. È l’unica persona rimasta nel villaggio. Si potrebbe pensare che vivere in quelle condizioni, nel totale isolamento dal mondo, conduca ad una progressiva perdita di cognizione del tempo. E invece Maria controllava sempre l’ora con un vecchio Nokia e aveva piccoli orologi dappertutto, appesi al muro e sui comodini. Il tempo era un compagno per lei. L’attesa. E nel film ho cercato di catturare il passare del tempo nell’aria. Ho chiesto all’interprete e alla troupe di andarsene e sono rimasto solo con lei. A volte, dopo aver fatto partire la ripresa, me ne andavo anch’io.

Le immagini delle manifestazioni ambientaliste in Germania sono tra le poche immagini di speranza del film. Pensi che in Europa ci sia una sensibilità diversa rispetto alle tematiche ambientali grazie ai movimenti giovanili di protesta?

È fondamentale che i giovani scendano in strada per protestare contro la timidezza con cui i governi stanno affrontando il problema climatico. Sono manifestazioni che rendono le persone consapevoli e attente a questo tipo di argomenti. È molto importante quello che è stato fatto da un movimento globale come Fridays for Future, prima per raggiungere la gente comune e poi per incidere sulle decisioni politiche. 

Come sei riuscito a bilanciare la tua aspirazione poetica, quindi di astrazione, con la necessità di comunicare in maniera molto diretta il destino a cui il mondo sta deliberatamente decidendo di andare incontro?

Il cinema è prima di tutto arte: il linguaggio poetico può toccare profondamente l’anima delle persone. Mi piace sperimentare con le immagini e intendo esprimere i miei pensieri innanzitutto attraverso un linguaggio cinematografico, quindi poetico per definizione. Fare un buon film è come chiudere un cerchio.

By Davide Sette

Giornalista cinematografico. Fondatore del blog Stranger Than Cinema e conduttore di “HOBO - A wandering podcast about cinema”.

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