Nove anni dopo Holy Motors, Leos Carax prosegue con Annette la sua riflessione sul potere della finzione cinematografica (esibita, plateale) e sul desiderio torbido che muove ogni autore. Dal suo esordio nel 1984 – Boy meets girl – il cinema del regista francese è sempre una questione di uomini che incontrano donne: a questo giro il boy è Henry (Adam Driver), stand-up comedian che ha fatto del cattivo gusto la sua cifra stilistica, la girl è Anne (Marion Cotillard), soprano di fama internazionale abituata ad inscenare ogni sera il tragico epilogo di una delle donne protagoniste delle sue opere.
Musicato dagli Sparks, che hanno ideato anche il soggetto, Annette è ad oggi il film più decifrabile della carriera di Carax, un musical che racconta di due amanti nel mondo dello spettacolo (come spesso fa il musical del resto), sulla cresta dell’onda fino a che non hanno una figlia e tutto comincia a peggiorare per uno dei due. Come si conviene nei musical, gli alti e bassi delle carriere professionali si riflettono nelle loro esistenze private.
Annette | cinema “en-chanté”
Non appena gli fu data la parola (attorno al 1929), il cinema francese ha subito cominciato a cantare, prima producendo in grande quantità adattamenti di operette e di film pensati esclusivamente per le dive del music hall, e successivamente approdando al cinema canoro di René Clair e alla nouvelle vague, i cui autori, da Varda a Godard, hanno sempre considerato la canzone uno strumento fondamentale del loro armamentario estetico. Fu però Jacques Demy a codificare con maggiore rigore e costanza quella tipologia di film che lui stesso definì “en-chanté”, in cui non vi era più una reale alternanza tra intermezzi canori e scene dialogate, ma tutti i dialoghi del film venivano integralmente musicati (Les parapluies de Cherbourg, Une chambre en ville).
È proprio a Demy che Carax e gli Sparks si sono direttamente ispirati: i personaggi di Annette si caratterizzano da soli nel momento in cui cantano, spiegano allo spettatore la loro collocazione nella trama e precisano il loro stato d’animo in un determinato momento. Cinema cantato completamente antitetico a quello americano, che non ricerca la successiva commercializzazione della colonna sonora, ma che invece adatta la musica alle ridondanze e alle esigenze, spesso banalmente descrittive, delle conversazioni.
Quello di Leos Carax è un cinema di consolazione, di “ebbrezza” subitanea e mai di “nutrimento” esaustivo (per utilizzare una terminologia nietzschiana), che punta a mitigare la durezza dell’esistenza attraverso menzogne e fantasie. Le emergenze del reale nei suoi film sono sempre durissime da accettare, atroci come le verità che Sileno porgeva a re Mida: stravolgono innanzitutto l’immagine che i personaggi avevano di sé, riconsegnando loro una dignità non superiore a quella degli animali, e successivamente rivelano la radicale assenza di finalità, di ragione superiore, di significato, di ordine, di valore, sia dell’esistenza umana che del mondo tutto. Una volta riemersa la realtà in superficie, a seguito delle “escavazioni nel sottosuolo”, quello che rimane attorno ad essa è uno scenario spoglio della sua grandezza, in molti aspetti terribile e spaventoso poiché privato della componente consolatoria della finzione cinematografica.
L’operazione (la trasformazione dei protagonisti in primati) che in Holy Motors rendeva il finale del film più tollerabile e meno crudele di quanto anticipato, in Annette avviene alla rovescia: ciò che era palesemente finto diventa reale, umano. La finzione non interviene quindi per rendere accettabile la realtà, ma è la realtà, prevalendo sulla finzione, a rivelare la componente “taumaturgica” di quest’ultima. Il film stordisce e abbaglia, incapace però di restituire allo spettatore qualcosa che, passato lo stupore iniziale, contribuisca a renderlo davvero rilevante. Non lavora per il pathos e nessuna delle sue tante intuizioni concorre ad un risultato più grande della somma delle singole sequenze.
Ambizione e realtà
Il film di Carax è colmo di un’espressività esasperata, rende evidente la retorica teatrale della quale la musica diviene mero strumento, punta alla ricerca dell’effetto ad ogni costo ed è costantemente teso verso il trascendente che domina l’opera. Di tutti i “difetti wagneriani”, Carax rinuncia almeno alla promozione della fede nel genio e al culto della personalità istrionica: il suo protagonista maschile, che da solo ingombra tutte le inquadrature, sempre più frequentemente in scena rispetto alla sua comprimaria femminile, è un concentrato di mascolinità tossica, maschera grottesca non più accettabile tanto nella società reale quanto nella finzione narrativa (autocritica che il regista rivolge anche a se stesso, aggiungendo dettagli al personaggio di Adam Driver – che si sposta in moto come Guillaume Depardieu in Pola X -provenienti dai suoi precedenti film).
Lavorando contemporaneamente sui tre generi (il porno, l’horror, il mélo) che Linda Williams in Film bodies: Gender, Genre and Excess aveva individuato come luogo di una corporeità emotiva ritrovata e ingovernabile, Carax è emerso fin da subito dagli abissi di quel movimento eterogeneo denominato “New French Extremity” (da Bruno Dumont a Gaspar Noé, da Catherine Breillat a Marina De Van, sino al nuovo horror francofono) dedito a un cinema sinestetico che puntava a reinquadrare il corpo (anche, soprattutto, dello spettatore) come soggetto politico. Annette, molto più posato e meno dirompente dei suoi film passati, non riesce a replicare (al contrario) il miracolo di Holy Motors: il passaggio dalla finzione esasperata al reale (con Driver truccato come se fosse lo stesso Carax) appare meccanico e dovuto.