Il film di Michael Mann, in concorso a Venezia 80, racconta uno dei periodi più difficili di Enzo Ferrari e della Casa del Cavallino, ovvero il 1957.
Ferrari, nel nuovo film di Michael Mann, non è tanto il nome della celebre scuderia di auto da corsa, quanto il cognome di chi l’ha fondata e l’eredità che quel cognome inevitabilmente si porta con sé. È attorno proprio ad esso che ruota una delle principali sottotrame del film, quella relativa al figlio non ancora riconosciuto avuto durante la guerra, ed è ciò che effettivamente influenza tutte le scelte, anche quelle “industriali”, di un’azienda a conduzione famigliare in cui le dinamiche intime e personali sono strettamente e pericolosamente legate a quelle pubbliche.
Non è perciò un film di corse, quello di Mann, cosa che potrebbe scontentare chi si aspettava un racconto pieno d’adrenalina e benzina, ma un dramma famigliare che dice molto su come il modo di vivere e di intendere le relazioni umane nell’Italia degli anni Cinquanta abbia contributo attivamente ai successi (e ai fallimenti) della sua casa automobilistica più celebre. Quindi, di riflesso, di tutta una certa classe imprenditoriale del nord che ha trovato in quegli anni il momento più florido per la propria attività.
Adam Driver torna a lavorare di sottrazione e restituisce un Enzo Ferrari austero e serafico, capace di prendere decisioni immediate senza proferire parola, sempre distante rispetto a ciò che avviene ma attento, concentrato sulle cose, proprio come i suoi piloti (o almeno come questi dovrebbero essere nel migliore dei casi). Ad animarlo c’è però un dolore che non trova sollievo: innanzitutto quello per suo figlio, morto giovanissimo, e poi quello per due suoi amici deceduti in un incidente a bordo di una delle vetture di sua creazione.
Ferrari | il confine invisibile tra vita privata e lavoro
Il triangolo amoroso con la moglie (Penélope Cruz) e l’amante (Shailene Woodley) occupa una porzione abbondante del film, anche in questo caso per dimostrare come il modo – atipico per quegli anni – di gestire infedeltà e crisi coniugali abbia poi avuto un effetto concreto sul futuro della stessa Ferrari (che la moglie avrebbe potuto far smettere di esistere con un colpo di spugna, se solo avesse voluto).
Il film di Mann, pur nel suo incedere mesto e nella sua totale adesione alla tradizione del biopic cinematografico più classico, ha infatti almeno il merito di far emergere – in contrapposizione alla figura monolitica di Ferrari – i suoi personaggi femminili, tutti caratterizzati da un’estrema complessità d’animo e in grado di dosare perfettamente razionalità, amore e risentimento per raggiungere i propri obiettivi, proteggere i propri cari e allo stesso tempo salvaguardare il nome “Ferrari”, letteralmente e commercialmente inteso.
Il capitalismo industriale italiano, tutto basato sulle relazioni amicali, amorose, di sangue, viene così raccontato anche nella sua dimensione più dimessa, elaborando il mito della Ferrari a cominciare dalla sua reputazione inizialmente macchiata da incidenti, errori grossolani, cattiva gestione del team.
La dimensione umana del film si fonda quindi principalmente sulla possibilità di accettare e prevedere l’errore, sulla fallibilità di chi abbassa per un attimo la soglia dell’attenzione o cede a tentazioni e lusinghe: tanto nella sfera privata, quanto in quella pubblica e sportiva. Si è umani, anche se si vorrebbe essere macchine.