La vérité, ovvero il primo film con produzione europea dell’acclamato cineasta nipponico Hirokazu Kore’eda, somiglia ad una delle celebri commedie francesi di Olivier Assayas (il film sembra davvero scritto da lui, nonostante la sceneggiatura sia dello stesso Kore’eda). Ambientato nel mondo della ricca borghesia (da sempre il terreno d’elezione anche di Assayas) e popolato da personaggi tutti riconducibili al mondo del cinema (Juliette Binoche è una sceneggiatrice, Catherine Deneuve un’attrice e Ethan Hawke un caratterista), il film di Kore’eda utilizza lo stesso umorismo che già animava un film come Doubles Vies, anch’esso presentato in concorso a Venezia. Ci sono le battute sul cinema (l’utilizzo massiccio di effetti speciali, la mania di muovere sempre la macchina da presa anche in maniera brusca) e il gioco metacinematografico sul passato reale delle attrici (la “rivalità” tra Brigitte Bardot e Catherine Deneuve). C’è persino il personaggio stravagante, sempre presente nei film di Assayas, estraneo al mondo nel quale il film si svolge e voce fuori dal coro che pungola gli altri personaggi (in questo caso l’ex marito di Fabienne).
Lo scopo del cinema di Kore’eda è però completamente diverso da quello del cinema di Assayas. Il regista nipponico non vuole svelare a tutti i costi “l’inganno” che si cela dietro al suo film, l’origine per sua definizione fittizia della sua opera, ma vuole invece costruire un vero e proprio elogio della finzione, che per Kore’eda sembra essere il solo modo di comprendere e decodificare la realtà (addirittura sembra preferirla alla realtà stessa). D’altronde tutti i personaggi del suo film utilizzano gli stratagemmi (di attrice o di sceneggiatrice) che hanno imparato nel loro lavoro per il cinema per risolvere beghe personali e sfruttano tutto ciò che gli accade attorno (prima di tutto i dissidi con le persone care) per migliorare nel loro lavoro (per correggere una scena che poteva venire meglio o per scrivere un nuovo copione).
Il personaggio della Deneuve lavora ad un film nel film (che sembra una folle versione intimista, “da camera”, di Interstellar) grazie al quale riuscirà a capire come comunicare con sua figlia (e la figlia a sua volta troverà il coraggio di esternare i propri sentimenti guardando la madre recitare). La finzione, quindi il cinema, per Kore’eda non è semplicemente una “terapia”, uno strumento attraverso il quale sanare le ferite del passato, ma un ideale al quale aspirare. Quel tipo di complessità che da sempre Kore’eda applica ai suoi film, contraddicendo con le immagini e la regia ciò che è scritto in sceneggiatura, fornendo uno sguardo diverso su vicende che invece sarebbero facilmente deprecabili se analizzate asetticamente, deve essere applicato anche nella realtà, per mettere in discussione le condanne preventive che spesso formuliamo da spettatori (e che sarebbe facile formulare anche sui personaggi di questo suo nuovo film, che solo con il passare dei minuti si mostreranno nella completezza delle loro sfaccettature).
Nel suo precedente Ritratto di famiglia con tempesta, Kore’eda faceva convergere tutto il film su quella immagine che dava il nome all’opera. E solo avendo visto tutto ciò che avveniva prima, si era in grado di comprendere il significato di quella scena, di guardarla con gli stesso occhi con i quali la guardava il regista. Così anche ne *La vérité* si dovrà arrivare ad una immagine ben precisa, quella di una famiglia asiatica molto numerosa seduta in un ristorante, per capire il senso di tutta l’operazione e lo scarto necessario fra la passata filmografia del regista (sintetizzata in quella inquadratura) e questo suo debutto occidentale (sintetizzato nell’immagine di una solitaria Catherine Deneuve seduta al tavolo dello stesso ristorante).