Matthias (Gabriel D’Almeida Feitas) e Maxime (Xavier Dolan) si conoscono da sempre. Sono stati amici d’infanzia e ancora condividono gran parte della loro vita, degli amici, dei loro gesti quotidiani. Una banale scommessa e un’amica comune con un film da realizzare saranno poi il motivo che porterà a un fatidico bacio tra loro. All’apparenza una messa in scena, un momento di finzione, che sarà però fattore scatenante di molte altre cose. E proprio in nome e nel tempo di quel film dal profetico titolo “Limbo”, per i due amici si aprirà una nuova fase di vita, una voragine di dubbio e incertezza, paure e tensioni. Perché da quel momento la natura del loro rapporto sarà destinata a cambiare, dovrà confrontarsi con l’orco del non detto, di ciò che si prova ma non si può e non si vuole confessare nemmeno a sé stessi. Infilato dunque di forza il limbo del cambiamento, Matthias e Maxime dovranno poi andare anche verso la strada della consapevolezza. La fetta di strada più ardua e difficile. Ma il tempo stringe e le paure aumentano. Perché Maxime sta per partire e il tempo per chiarirsi e comprendersi potrebbe non tornare mai più.
Xavier Dolan, genio ribelle ed enfant terrible (varcata da pochissimo la soglia dei trenta), torna al suo cinema di pura emozione catalizzata in energia che si libera attraverso le immagini, la musica, e le parole. Fluido e veloce, Matthias & Maxime è una pedalata liberatoria, una discesa libera all’interno di un sentimento e di una passione da tempo implosi e che scalpitano per rompere i loro argini ed esondare, travolgere tutto. Quell’enorme conflitto interiore che sembra placarsi solo nelle bracciate frenetiche in acque placide, che trova conforto in quella catarsi fisica e che cerca, specularmente, anche una liberazione mentale ed emotiva che però è sempre molto più lenta, complessa. In due ore di film Dolan catalizza l’emozione e la passionalità come solo lui sa fare, fotografando gli attimi di vita che scivolano via tra sequenze urlate e pause silenti, tra risate e lacrime, nel disagio di quei tanti vuoti e di quegli isterismi che, insieme e all’unisono, parlano il linguaggio dell’emozione esasperata e incontrollata.
Attraverso un uso iperbolico dell’immagine e del sonoro, raccogliendo briciole di vita e ritagli estemporanei del quotidiano, partendo da uno sguardo dolente che segue un cartellone pubblicitario di “famiglia felice” e subito dopo un mozzicone di sigaretta lasciato rotolare sull’asfalto, Dolan (s)muove tutta la tensione di un’amicizia irrimediabilmente mutata in passione, ma che fatica a rivelarsi, accettare e ratificare la sua nuova identità. Controparte contemporanea e al maschile del film della Sciamma, quest’ultima opera del giovane e talentuosissimo regista canadese fa scoppiare il temporale del sentimento e della passione muovendo insieme ordinario ed extraordinario, passando nella distanza di qualche finestra da un gruppo di amici che corre a tirar via dalla pioggia i panni stesi e altri due amici immobilizzati e rapiti dentro il loro personale diluvio emotivo. Accostamenti, ellissi ed elusioni che aprono e chiudono, veloci, i sipari della vita.
Di nuovo capace di toccare vette altissime dell’emozione, e di realizzare un film che scava dritto nel profondo dei nostri dolori più forti e del nostro non detto più lancinante, ma che ha di contro ha anche un grande ritmo e una straordinaria tenuta narrativa sempre in bilico tra tensione ed evasione, lacrime e risate, Dolan qui compie un nuovo slalom gigante tra le pieghe più insidiose dell’emozione, affrontando il tema di una sessualità implosa e negata, e che poi – una volta risvegliata – fagocita tutto, sbaragliando ogni idea e illusione precedentemente e penosamente costruiti. Un film che brilla per la capacità di trasportare ogni evento esterno in una percezione intima e personale, di filtrare ogni cosa attraverso gli occhi e i cuori dei due bravissimi protagonisti: lo stesso Dolan che scrive, dirige e veste con pienezza emotiva i panni di Maxime e Gabriel D’Almeida Feitas nel ruolo di Matthias. Un saliscendi emozionale che in alternanza rallenta o impenna il livello emotivo dell’opera, anche grazie all’uso come sempre eccentrico del sonoro e della musica, che a volte sovrasta e mette fuori campo le voci mentre altre volte va in dissolvenza per restituire, invece, l’enorme valore dei silenzi.