Festival di Roma: Spose celesti dei Mari della pianura, la recensione

Presentato in concorso al 7.RFF, il nuovo film di Aleksey Fedorchenko, è una sorta di Decamerone russo, in cui, attraverso 23 episodi di varia lunghezza, il regista ci racconta storie fiabesche, magiche, grottesche che hanno come protagoniste 23 donne del popolo Mari.

A due anni dal successo di Silent Souls, presentato a 67.Venezia e premiato con il Mouse d’Oro, il cineasta russo ci regala nuovamente un film-documento sull’antica popolazione ugro-finnica, sorta sulle rive del Volga, ormai quasi scomparsa. Se in Silent Souls l’elemento attraverso cui ritrovare la propria identità era l’acqua, in Spose celesti  dei Mari della pianura la chiave di lettura è rappresentata dalla donna, intesa  come madre, perciò terra fertile da cui tutto ha origine. In questo senso la scelta di rappresentare in episodi i vari caratteri della donna ha senso. Purtroppo però i 23 episodi finiscono per spezzare il tempo in maniera insopportabile: i 104 minuti di cui si compone il film, sembrano almeno il doppio. Anche l’aspetto magico e fiabesco della pellicola, che non disdegna la cadute grottesche, dopo un po’ rischia di far scappare il pubblico dalla sala. Insomma si tratta di un’opera destinata ad un festival, non certo ad un’ampia distribuzione nelle sale cinematografiche.

La regia sembra inesistente e si riprende con inquadrature che regalano delle bellissime immagini pittoriche. La fotografia, sempre in bilico tra fiaba e realtà, fa la sua figura, ma purtroppo non basta a fare riemergere il film dalla fossa che si scava da solo. Il colpo di grazia lo dà la colonna sonora, surreale e comica, ma poco incisiva. Per finire le interpretazioni, tutte molto teatrali, a lungo andare risultano stucchevoli. Potremmo anche essere noi gli ignoranti, mal abituati alla comprensione di culture lontane e antiche, ma c’è modo e modo di rappresentarle. Quello usato da Fedorchenko in Spose celestiali della pianura dei Mari non è quello giusto. Un film non per il grande pubblico, il cui valore sarebbe quello di essere il primo film magico femminista post-sovietico, se non fosse diretto da un uomo.