A due anni di distanza dalle elucubrazioni filosofiche di Birdman e dalle nevrosi esistenziali dei suoi personaggi, il regista messicano Alejandro González Iñárritu torna sul grande schermo con il nuovo attesissimo Revenant, storia di vendetta e sopravvivenza nel gelido deserto del Missouri. La pellicola, tratta dall’omonimo libro di Michael Punke, racconta la leggendaria vicenda di Hugh Glass, uomo di frontiera di origini scozzesi che, dopo essere scampato per miracolo al sanguinoso attacco di un grizzly, decide di mettersi sulle tracce dei compagni che volevano lasciarlo morire. Nonostante ciò, la trasposizione cinematografica riesce a trovare una propria strada inedita e originale, allontanandosi di molto dalla fonte letteraria alla sua base, e facendo ruotare la narrazione sul nuovo personaggio di Hawk, figlio adolescente di Glass, la cui morte sarà questa volta il vero motivo della sua sete di giustizia. Nella concezione dualistica di Iñárritu, la storia narrata si trova stretta fra due poli opposti, la carnalità del protagonista e la misteriosa evanescenza delle forze naturali che lo circondano, relegando ai margini della vicenda il gruppo di avventurieri scozzesi. Ma la prova di Leonardo DiCaprio non è semplice testimonianza di un grande talento attoriale e recitativo (ben più evidente in altre pellicole), ma la prova di una assoluta dedizione al proprio lavoro, la volontà di sacrificarsi anche fisicamente in nome della propria arte. A rubare la scena al redivivo Hugh Glass è invece uno splendido e sfaccettato Tom Hardy, che ancora una volta dimostra la sua innata bravura di caratterista, specialmente in ruoli dove la follia e la violenza sono alla base del personaggio da interpretare.
Fin dalla prima sequenza, quella della maestosa battaglia di Arikara, risulta chiaro allo spettatore come Iñárritu sia tornato ancora una volta per stupire e giocare con il proprio pubblico, attraverso virtuosismi registici quali lunghi piani sequenza e inquadrature complesse e ricercate. Ma troviamo sul piano concettuale molto della ricerca filosofica sulla natura portata avanti dal cineasta tedesco Werner Herzog, la convinzione che “il minimo comune denominatore del nostro universo non sia l’armonia, bensì il caos, il conflitto, la violenza”. Parallelismo che risulta evidente se pensiamo come anche nel Grizzly Man del regista bavarese la natura pericolosa e minacciosa sia proprio rappresentata simbolicamente da un orso assassino. E se la prima parte di Revenant richiama da vicino le atmosfere di Fitzcarraldo, le immagini di uomini piccoli e insignificanti, polvere nel più vasto mondo in cui vivono, Tom Hardy rappresenta il moderno Klaus Kinski, un Aguirre reso cieco dalla propria ambizione e spinto a commettere crimini inconfessabili, a pensare a nessun altro se non a se stesso. Il regista messicano sembra pescare molto dal cinema impegnato (e impegnativo) di registi come Terrence Malick, con il protagonista costretto a riflettere e a soffermarsi sulla spaventosa immensità del proprio cosmo, sulla imprevedibilità delle leggi naturali, attraverso visioni e voci nel cervello. Purtroppo, però, Iñárritu non riesce a raggiungere gli stessi livelli di profondità e analisi introspettiva, confezionando una pellicola di grande eleganza e intrattenimento, ma priva di quella carica di originalità e personalità propria di lavori più genuini e meno studiati come il Valhalla Rising di Winding Refn. Nonostante il suggestivo lirismo delle immagini, e la consapevolezza della macchina da presa ormai totale da parte del regista messicano, Revenant spesso fatica a raggiungere i suoi ambiziosi obiettivi, a scardinare le consuetudini del genere e a valicare i confini del “cinema di vendetta”.
Lo spettatore è come ipnotizzato dalla bellezza delle immagini, dalla precisa e sapiente fotografia di Lubezki, vera e propria anima della pellicola. Il direttore della fotografia dietro a capolavori come The tree of life, il papà di quello spazio vuoto e profondo che faceva da sfondo al Gravity di Cuarón, riesce ancora una volta a portare sulle proprie spalle il peso del lavoro altrui, conferendo a Revenant quella potenza visiva disarmante che spesso riesce a far dimenticare una sceneggiatura forse fin troppo derivativa e superficiale. Iñárritu sembra infatti non aver imparato dagli errori del proprio passato e, dopo 21 grammi e Babel, rinuncia ancora una volta alla ricerca di quelle sfumature, sui personaggi e sulla vicenda narrata, che avrebbero potuto rendere questo Revenant un lavoro di ben altro spessore. Nonostante questi veniali difetti, la nuova opera del regista messicano riesce comunque nel compito di appassionare e suggestionare, attraverso la disarmante bellezza e ferocia delle ambientazioni e la sempre ispirata “mise en scène”. Iñárritu, messo finalmente da parte un certo narcisismo autoriale, cerca di recuperare le proprie origini, concentrandosi sulla sostanza della propria opera piuttosto che sulle apparenze e i ridondanti virtuosismi. E’ per questo che, dopo aver vissuto la tragica quanto estenuante “resurrezione” di Hugh Glass, ci accorgiamo di quanto la vendetta sia stata vuota e inutile, che tutto ciò che è stato strappato via al protagonista è destinato a non fare mai più ritorno perché, per dirla con le parole della didascalia finale di Amores Perros, “siamo anche quello che perdiamo”.