La recensione di Flow, il secondo bellissimo film animato del giovane regista lettone Gints Zilbalodis. Una favola poetica dalla fine del mondo, tra cinema e videogioco.
Se Away, il precedente film di Gints Zilbalodis, raccontava la storia di un ragazzo isolato su un’isola, senza aiuto, senza possibilità di comunicare con gli altri, questa sua seconda opera, mettendo in scena una bizzarra e variegata comitiva di animali che devono navigare nelle acque della fine del mondo (o, meglio, dopo la fine della razza umana), in qualche modo riflette il passaggio dal lavorare da solo in una stanza con il computer (come il regista lettone ha realizzato il suo primo lungometraggio) al lavorare con un team di animatori ingaggiati tra Francia, Lettonia e Belgio.
Flow, infatti, è un film corale sia su schermo che dietro di esso, che racconta di un gatto, ma anche di un autore, indipendente, abituato a stare da solo, che deve imparare a cooperare con gli altri. Anche stavolta, come nel precedente progetto, l’utilizzo di software di animazione 3D pensati più per i videogiochi che per il cinema conferisce al film un aspetto irreale, grazie a una computer grafica che ha tutta la ruvidezza tremolante del sogno.
Capace di disegnare un mondo digitale che ci appare subito come lontano dal nostro e nel quale si muovono – in maniera invece estremamente realistica – i protagonisti del simpatico bestiario messo insieme da Zilbalodis.
Flow: un’animazione irreale
Nuovamente troviamo la fascinazione per Hayao Miyazaki, ma anche quella per videogiochi come ICO e Shadow of the Colossus: influenze che danno al regista la confidenza necessaria per presentare la sua storia in medias res, come spesso avviene nei videogiochi, ambientandola in un mondo che non ha bisogno di spiegazioni, che è un elemento dato per assodato fin dall’inizio senza dover necessariamente spiegare allo spettatore come e quando si è venuto a creare lo scenario apocalittico nel quale i protagonisti si ritrovano.
Non ci sono più gli esseri umani, solo i resti di una ipoteca civiltà inabissata, con le sue rovine metafisiche e i suoi misteriosi manufatti galleggianti, un avamposto di umanità adesso soppiantata da una natura vorace e invadente.
Come accade per i videogiochi, è dall’ambiente che inizia tutto. Zilbalodis crea tutto il setting tridimensionale e solo successivamente sceglie i punti dove posizionare la “macchina da presa”, facendo una ricognizione dei luoghi come se ci si trovasse davvero fisicamente dentro quel mondo e fosse necessario fare del location scouting come per i film con attori e ambientazioni reali.
È un lavoro di preparazione fondamentale, perché in Flow i sentimenti – la curiosità, la paura – si esprimono innanzitutto attraverso i movimenti di macchina, che diventa quasi un personaggio a sé stante: a volte molto vicina agli animali, a volte distante, come distratta da qualcosa nel paesaggio.
Così il regista comunica allo spettatore l’impressione di poter navigare autonomamente in questo mondo: avventurandosi dentro di esso, raccogliendo indizi sul suo passato e ponendo l’attenzione sui dettagli che più lo incuriosiscono, senza essere troppo guidato.