Una nave spaziale si trova alla deriva, al di là del sistema solare. Del suo originale equipaggio, sono sopravvissuti soltanto Monte e Willow, nata da un abuso della dottoressa Dibs, scienziata ossessionata dagli esperimenti di riproduzione. Con un intervento di manutenzione destinato a rimanere incompiuto si apre High Life, nuovo film fantascientifico di Claire Denis sull’irreparabilità.
High Life | il film di Claire Denis omaggia Tarkovskij
“Ho usato molto l’acqua perché è una sostanza molto viva, che cambia forma continuamente, che si muove. È un elemento molto cinematografico. E tramite essa ho cercato di esprimere l’idea del passare del tempo. Il mare lo sento estraneo al mio mondo interiore, perché è uno spazio troppo vasto per me. Le enormi distese mi dicono meno di quelle limitate. Forse per questo amo molto l’atteggiamento dei giapponesi nei confronti della natura. Cercano di concentrarsi su uno spazio ristretto e di vedere in esso il riflesso dell’infinito”.
Così parlava Andrej Tarkovskij, il regista che più di altri ha utilizzato l’acqua (quella che gocciola, quella delle pozzanghere, dei ruscelli, dei fiumi, della pioggia, dei catini) per raccontare il mondo interiore dei propri personaggi. Come nella scena finale di Stalker, in cui la ragazza paraplegica, dotata di poteri paranormali, sposta con la sola forza della mente un bicchiere pieno d’acqua poggiato sul tavolo, anche High Life è caratterizzato da un sommovimento liquido-emotivo che giunge al termine di un travaglio interiore vissuto da un padre dubbioso sul futuro dell’umanità.
Nel nuovo film di Claire Denis, che a Tarkovskij si rivolge in più di un’occasione, l’acqua è elemento fondamentale per comprendere il personaggio di Monte (Robert Pattinson), ultimo sopravvissuto di un equipaggio formato in origine da un gruppo di condannati a morte confinati nello spazio, che, rinchiuso in una navicella spaziale in evidente disfacimento (uno spazio chiuso in cui si riflette l’infinito, appunto), cerca disperatamente di tenere in vita una neonata.
Estetica della rovina
Come molta della fantascienza “d’autore” più recente (si pensi anche a First Man – Il primo uomo di Damien Chazelle), High Life esibisce l’economia del set, racconta lo spazio attraverso un’estetica della deteriorabilità in cui tutto è materia esposta alla rovina: rottami, piante in putrefazione, dispositivi ormai obsoleti. In questo contesto di macerie, in cui persino le tute degli astronauti sono rammendate e tenute insieme attraverso espedienti di fortuna, i riferimenti al cinema di fantascienza maturo (Tarkovskij, ma non solo) non rimandano a nessun passato cinematografico, ma solo al suo cadavere, al suo relitto.
Il protocollo sulla riproduzione nello spazio sfocia presto in un umiliante ed infinito rituale erotico inflitto all’equipaggio dalla scienziata di Juliette Binoche. Così Claire Denis trova nuovamente il senso del suo cinema diviso tra erotismo e violenza, proseguendo il discorso cominciato con Cannibal Love sul desiderio di possedere gli altri.
La solitudine di Robert Pattinson
Monte è l’unico sopravvissuto di quel pugno di terribili fuorilegge spediti in orbita per crimini inconfessabili, rimasto a prendersi cura di “una nascita” all’interno di una nave già programmata per andare a morire, che diventa strumento di autoerotismo insostenibile, di desideri primitivi, di piaceri tanto solitari quanto funebri.
High Life è il tubo metallico attraverso il quale Claire Denis opera la sua personale endoscopia cinematografica, penetrando in un buco nero che conserva il ricordo della materia che lo riempiva. Sorprende, considerate le premesse così concettuali, la risposta “nolaniana” al grande quesito: “Come mettere ordine nel caos cosmico e temporale?”.