Le regole sono semplici, quanto crudeli e immutabili. In una tecnologica prigione che si sviluppa in verticale per duecento piani e forse più, i prigionieri sono stanziati in coppia di due per ogni livello e a seconda dell’altezza in cui si trovano possono cibarsi degli avanzi lasciati dai “vicini” di sopra. Dalla cima di questa machiavellica struttura viene infatti mandata ogni mattina una piattaforma (ogni piano ha uno spazio rettangolare vuoto al centro proprio per permetterne l’arrivo) carica di pietanze di ogni genere che, come ovvio nella sua discesa, si svuota inesorabilmente sosta dopo sosta, costringendo i reclusi dell’ultimo livello ad un digiuno forzato o alle più infinitesimali rimanenze.
Goreng si è offerto come volontario e alla fine di un periodo di sei mesi otterrà l’atteso attestato di permanenza ma con lo scorrere dei giorni, e l’incontro-scontro con diversi compagni di cella, scoprirà fin dove può spingersi l’animo umano in condizioni di estrema necessità nella quale la sopravvivenza di uno può dipendere da quella dell’altro.
Il buco dell’animo
Premiato e candidato in diversi festival, tra cui quelli di Torino e Toronto, arriva direttamente online nel catalogo di Netflix l’esordio dietro la macchina da presa del regista spagnolo Galder Gaztelu-Urrutia. Il buco è un film crudo e crudele, ennesima incursione nel cinema distopico che si colloca a metà tra le claustrofobiche atmosfere di Cube – Il cubo (1997) e la scala sociale di Snowpiercer (2013): gli spazi limitati e i crocevia morali riportano alla mente proprio il cult di Vincenzo Natali mentre la lotta per cambiare la situazione e l’esplorazione dei vari livelli è più affine al titolo di Bong Joon-ho. Nonostante tutto quest’opera prima possiede una vibrante personalità, in grado di mantenere alto l’interesse anche nelle fasi apparentemente più statiche e di intessere un interessante quadro psicologico sulle derive che la mente può raggiungere quando si trova alle prese in una lotta per la sopravvivenza che mette tutti contro tutti, senza distinzione di sesso, razza o religione.
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Una magra democrazia
Se l’esperimento si contamina di riflessi psicologici in una sorta di utopistica ricerca dell’equilibrio, mettendo a nudo i limiti dell’intera razza umana nella concezione di una solidarietà irrealizzabile nella totale complessità, non mancano delle sane influenze di genere con l’horror che fa capolino in più occasioni non solo dal punto di vista introspettivo ma anche in uno splatter dal taglio realistico (ma mai eccessivamente gratuito, con sequenze più disturbanti nel nascondersi che nel mostrarsi) che caratterizza alcuni dei passaggi chiave, e un’atmosfera mystery permeante il substrato narrativo che spinge lo spettatore ad incuriosirsi sul destino dei protagonisti e di cosa possa nascondersi sul fondo della discendente prigione.
La scelta di un cast piacevolmente “normale”, privo di sex symbol o figure sopra le righe, offre un senso di amara verosimiglianza – ovviamente contestualizzata al metaforico approccio scenico – e a parte la forzata scelta dei dialoghi introduttivi atti all’esposizione del relativo background, la sceneggiatura si muove con grottesca lucidità nel procedere sempre più macabro e tensivo degli eventi, fino ad un epilogo che si concentra più sull’importanza del messaggio che su una chiusura ad effetto: ennesimo punto di forza di una visione forse non originalissima ma incisiva al punto giusto.