Il Libro della Vita, la recensione del film d’animazione prodotto da Guillermo Del Toro

Il triangolo amoroso tra due baldi migliori amici e una giovane di rara bellezza desta l’interesse di due divinità, La Muerte e relativo consorte Xibalba, che scommettono su chi tra i due riuscirà a conquistare il cuore di Maria. Manolo è un giovane diviso soddisfare le aspettative della sua famiglia che lo vorrebbe torero professionista, e il seguire le volontà del suo cuore intrappolato tra le corde della sua chitarra. La contesa tra Manolo e l’amico Joaquin si svolge dunque sullo sfondo della tradizionale festa in onore degli antenati e dei cari defunti, sulla scia di un viaggio iniziatico tra due universi – la Terra dei Ricordati e quella dei Dimenticati – che Manolo intraprenderà nell’estremo tentativo di ricongiungersi all’amata.

vita3“Il Messico è il centro dell’universo, e molto tempo fa al centro del Messico c’era una pittoresca città chiamata San Angel.” Comincia così la storia consacrata al grande schermo dall’animazione di Jorge R. Gutierrez, che ne Il libro della vita sembra infondere il suo sapiente sforzo estetico, atto ad inscenare un film di fattura superba che sembra possedere tutte le caratteristiche del kolossal. Originalità in primo piano per un racconto d’altri tempi, che viaggia tra il mondo dei vivi e dei morti, ricalcando le tradizioni più radicate nella cultura messicana: il giorno dei morti è una festa per gli occhi di chi si sofferma a guardare con attenzione le caleidoscopiche inquadrature sempre più traboccanti di dettagli, in un’esplosione barocca di maschere e colori. L’alternanza tra vita e morte come garanzia dell’ordine cosmico e la presunta esistenza di un canale di comunicazione tra le due dimensioni divengono colonne portanti dell’intera struttura narrativa, inneggiando al culto popolare precolombiano della celebrazione del ricordo dei defunti tramite danze e banchetti, costumi dal sapore carnevalesco e migliaia di candele che vanno ad illuminarne il trapasso da un mondo all’altro.

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Prodotto – tra gli altri – dal famigerato Guillermo del Toro, Il libro della vita resta un lungometraggio animato che sul piano diegetico incastra alla perfezione una metastoria che tuttavia si rivela di non poca difficoltà, tanto da risultare poco pratica da gestire: il tripudio di immagini sul versante visivo quasi servirebbe a sopperire alla mancanza di solide fondamenta che sostengano la vicenda di Manolo, improvvisamente catapultato in un aldilà che a tratti sfocia nel patetico. I toni melensi restano comunque quelli tipici delle più celebri pellicole d’animazione, capaci di coinvolgere sia grandi che piccini fino al coronamento del classico happy ending, in un crescendo di sfondi e avventure che rischiano di sgonfiarsi sul più bello da un momento all’altro, riuscendo ad ogni modo a non cadere nel baratro del banale e riduttivo grazie anche a non poche suggestioni provenienti da precedenti capolavori del genere – basti pensare ai numerosi richiami cinematografici che vanno da Dragon Trainer a Le 5 leggende. Il tutto condito da un formidabile arrangiamento di pezzi più che rinomati, pronti a dare un tocco di attualità ad una vicenda dai caratteri fortemente universali. Sulle note dei Radiohead, dei Mumford&Sons, di Ennio Morricone e Placido Domingo volteggia l’eterna armonia tra vita, morte e ricordo, e la fresca leggerezza con cui tali temi vengono trattati non è di quelle che lasciano indifferenti.

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