Presentato nella sezione Orizzonti Extra della 8oesima Mostra del Cinema di Venezia, In the Land of Saints and Sinners è il nuovo film di Robert Lorenz, che torna a collaborare con Liam Neeson dopo Un uomo sopra la legge. Ne abbiamo parlato con il regista.
In the Land of Saints and Sinners è un revenge movie dalla sceneggiatura molto tradizionale, valorizzato però da una cura e una precisione nella messa in scena che ne mettono a nudo i meccanismi. Ne abbiamo parlato con il regista Robert Lorenz. Ecco cosa ci ha raccontato.
D: Una delle scelte fondamentali per questo film è quella relativa all’ambientazione, così diversa da quelle in cui generalmente vengono ambientate questo tipo di storie. Da dove nasce il suo interesse per l’Irlanda?
R: La sceneggiatura è arrivata sulla mia scrivania e ne sono rimasto subito affascinato. L’idea che mi interessava era quella di fare un western ambientato in Irlanda. Perché ho delle origini irlandesi, mia madre era di lì, ma non ho mai avuto l’occasione di esplorarla a fondo. È sicuramente un setting atipico per una storia che invece potremmo definire convenzionale, archetipica, di vendetta e redenzione. Ho chiesto allo sceneggiatore Mark McNally cosa lo avesse spinto ad ambientale questa storia lì e mi ha raccontato di aver viaggiato in Irlanda in lungo e largo e di essersi innamorato della contea di Donegal. Quando abbiamo fatto i sopralluoghi, ho capito perché. È un posto che, anche storicamente, è sempre servito come nascondiglio, in senso metaforico e letterale. Un posto per allontanarsi dalla società.
D: Si parla molto in questi giorni dell’opportunità di chiamare attori stranieri ad interpretare personaggi con nazionalità diversa dalla loro. In questo caso, lei ha scelto di comporre un cast esclusivamente irlandese. Da dove nasce questa esigenza?
R: Il mio obiettivo era quello di fare un film che fosse il più autentico possibile. Ero molto sensibile al fatto di essere un americano che si trovava a raccontare una storia irlandese, che non lo riguardava da vicino, nonostante le mie origini materne. Ma la scelta, in questo caso, non si è limitata solo al cast, ma anche alla troupe, composta quasi esclusivamente da maestranze irlandesi. Mi è stato molto utile perché anche loro avevano modo di monitorare l’accuratezza di ciò che stavamo facendo sul set, la credibilità degli accenti e così via. Cosa che non avrei potuto fare da solo. Sono molto contento di aver lavorato con attori così bravi, di cui ho molta stima: Liam Neeson, che è stato il protagonista anche del mio precedente film, ma anche Colm Meaney, Ciarán Hinds, Kerry Condon e Jack Gleeson, che qui compare nel suo primo ruolo dopo aver fatto Game of Thrones.
D: Il ritratto che emerge dei terroristi dell’IRA è parecchio duro, in alcuni casi decisamente odioso, specialmente nel caso di Kerry Condon. Come ha lavorato su questi personaggi?
R: Per approfondire il tema del film, mi è capitato di leggere un ottimo libro dal titolo “Say Nothing”, sull’Ira. Un libro molto approfondito e dettagliato. E lessi di questa donna, Dolours Price, che mi colpì per la sua tenacia ed ostinazione. Quando ho chiesto allo sceneggiatore se lei fosse stata in qualche modo l’ispiratrice del personaggio di Kerry Condon, me lo ha subito confermato. Il suo personaggio, nonostante possa sembrare odioso, è comunque motivata da una passione, da una convinzione di essere nel giusto e di voler lottare per ciò che crede. È questo che io vedo in lei, dietro a tutta la sua ferocia. Quindi penso che in questo caso l’importante sia essere chiari e trasparenti in ciò che si sta facendo e in ciò che si vuole raccontare.
D: Mi è sembrato di cogliere dei riferimenti specifici ad alcuni film del passato. Qual è il suo rapporto con i classici e in che modo si è lasciato influenzare da essi?
R: Sicuramente Thunderbolt and Lightfoot (Una calibro 20 per lo specialista, ndr) è stato un modello, essendo uno dei miei film preferiti, ma ovviamente anche The Unforgiven è stata una fonte di ispirazione fondamentale. L’ho rivisto prima di girare e mi sono accorto di alcune similitudini con quello che stavamo raccontando. Ad esempio che il personaggio di Clint ha una reputazione terribile, quella di ladro ed assassino, conosciuto per la sua brutalità e sregolatezza. Nonostante ciò, lo spettatore riesce comunque a capire le motivazioni che lo muovono nel film. Perché in quel caso lo vediamo battersi per i suoi amici. È un concetto che mi interessava molto: la capacità di lottare con tutte le proprie forze per qualcosa in cui si crede, al di là che questa cosa sia giusta o sbagliata.
D: In che modo il sodalizio decennale con Clint Eastwood ha influenzato il suo modo di fare cinema?
R: Penso che uno dei motivi per cui il sodalizio con Clint sia durato così a lungo è che abbiamo una sensibilità comune sul cinema. E ovviamente ho imparato moltissimo da lui, soprattutto nel seguire l’istinto, l’intuizione, e affrontare le sfide con sicurezza. Abbiamo lavorato insieme per più di vent’anni, quindi sicuramente il suo stile è entrato nel mio quando ho cominciato a fare il regista. Da lui ho imparato soprattutto il rispetto per le persone che lavorano ad un film. Lui mi diceva sempre: non dire agli altri come devono fare il loro lavoro. Perché è permettendo a tutti di esprimere la propria creatività e la propria professionalità che si raggiungono i risultati migliori.
D: Quello da produttore a regista è stato un passaggio traumatico o ha sempre voluto cimentarsi dietro la macchina da presa?
R: Ho sempre voluto fare il regista e non ho mai sognato di fare il produttore. Ho iniziato come assistente alla regia, perché volevo imparare il mestiere. E quando mi sono trovato a fare l’assistente per Clint Eastwood, è stato lui a chiedermi di produrre il film. Sarebbe stato folle dire di no. Quella prima volta andò bene e abbiamo continuato. Ho lasciato poi dopo American Sniper perché volevo seguire la mia strada come regista. Ma siamo rimasti molto amici.