Dopo il premio Oscar per Birdman (o le imprevedibili virtù dell’ignoranza), Alejandro González Iñárritu tenta di replicare il successo dello scorso anno con il film-evento The Revenant – Redivivo. La pellicola, oggetto di grande attenzione mediatica a causa della performance che dovrebbe finalmente garantire a Leonardo DiCaprio la sua prima attesissima statuetta, è un’opera d’arte che rasenta la perfezione. Oltre alle abilità registiche di Iñárritu The Revenant vanta il talento visionario del direttore della fotografia Emmanuel Lubezki, detto Chivo, che quasi sicuramente si aggiudicherà il riconoscimento dell’Academy. Pochi giorni fa abbiamo incontrato a Roma il regista messicano per approfondire gli aspetti chiave del film più controverso dell’anno.
Il direttore della fotografia ha avuto un ruolo chiave nella riuscita di Revenant. Può parlarci della vostra collaborazione?
«Il processo che ha portato alla realizzazione di questo film e di questo tipo di arte è stato molto complesso e impegnativo. Ha richiesto il lavoro di molti reparti diversi. Ho avuto il privilegio di conoscere Chivo a 20 anni. Abbiamo lavorato insieme a diversi corti e, più di recente, a Birdman. Sono da sempre un suo grande fan. La sua conoscenza dell’uso delle luci è formidabile per non parlare dei suoi ritmi di lavoro in generale».
Quali sono gli step che avete seguito per arrivare alla realizzazione di un’opera d’arte come The Revenant?
«Per prima cosa ci poniamo degli obiettivi da raggiungere dal un punto di vista della narrazione, delle riflessioni e della visione che vogliamo creare. Poi ci sediamo a tavolino per discutere gli aspetti tecnici del film. Chivo è estremamente meticoloso ed è per questo che il processo richiede moltissimo tempo. Alcuni usano lo storyboard, altri gli XIB, un metodo digitale. Noi invece scoviamo un luogo e cominciamo a sperimentare. Tutto ciò che vedete nel film è frutto di mesi di progettazione. Nulla è lasciato al caso».
Il film è molto cruento. Come mai si è servito di una tale violenza nella messa in scena?
«Il mio obiettivo iniziale era creare un film con un forte stile documentaristico. Volevo che animali e paesaggi apparissero in tempo reale come se noi fossimo presenti in quello specifico momento. Anche solo cinque anni fa non sarebbe stato possibile realizzare un film come questo a livello tecnologico. Non a caso proprio recentemente ho letto una recensione di un critico americano intitolata National Leo-graphic».
Aveva immaginato The Revenant anche come un film western?
«No, non era quello il film che avevo in mente. The Revenant non è un film western bensì un percorso spirituale e fisico in un’epoca in cui il West non esisteva ancora. Quelli a cui mi sono ispirato sono Fitzcarraldo di Werner Herzog, Apocalypse Now di Francis Ford Coppola e Akira Kurosawa. Erano i miei punti di riferimento perché i film di questi registi sono epici ma non tralasciano l’intimità con i personaggi e la loro dimensione spirituale».