Un nuovo horror tutto italiano nei prossimi mesi comincerà ad imperversare sul web, e presto nelle sale. Cose cattive, esordio alla regia di Simone Gandolfo, e alla produzione di Luca Argentero. In effetti nella rete c’era già come sceneggiatura, dato che racconta di quattro ragazzi che accettano di giocare ad un gioco su internet in cui devono dimostrare la loro malvagità. Inoltre ha già iniziato a far parlare di se stesso attraverso Facebook, Instagram, e continuerà con altre sorprese, e magari anche con qualche intuizione distributiva alternativa come ha fatto capire il produttore. Un progetto low budget, coraggioso ma mirato, attento alle dinamiche di mercato, ma soprattutto attento a come il mercato della distribuzione sta evolvendo. Un prodotto di genere, fortemente caratterizzato che guarda al futuro della produzione e della distribuzione pensando anche ad una circolazione indirizzata a degli accordi singoli con le sale. Scopriamo, e scopriremo quindi un Argentero produttore, consapevole e lungimirante. Ma per saperne di più del film, l’autore ci racconta la sua prima avventura.
Come é nata l’idea della storia e l’incontro col produttore?Simone Gandolfo
: é nato prima l’incontro col produttore. Anche io sono attore e con Luca Argentero abbiamo lavorato assieme per un film per la TV che si intitola La Baronessa di Carini. Lì abbiamo capito di avere un approccio simile al nostro lavoro. Poi ci siamo persi di vista per un po’ di anni, e ci siamo rincontrati quando Luca stava aprendo la sua casa di produzione, e io la mia. Nel frattempo io avevo appena lavorato alla serie televisiva RIS e i contatti del mio profilo Facebook erano schizzati a cinquemila. E succedeva che la gente mi scriveva chiedendomi se ero veramente Simone Gandolfo, io rispondevo di sì, e questo bastava per essere credibile. Per cui mi é venuto in mente che in realtà il web, non é semplicemente una derivazione della nostra realtà. È un’ altra realtà, che si muove con dinamiche diverse. Quando la vita e il web si incontrano si crea un cortocircuito. In più, in quel periodo stavo leggendo un libro di Cesare Fiumi che é una raccolta di fatti di cronaca riguardanti gli adolescenti, che si intitola La Gioventù Feroce. In più mi aveva colpito La Generazione Q di Umberto Galimberti, e mi sembrava che mancasse in Italia un film, lo definirei sociale, su quell’argomento. Il tema del disagio giovanile, sotto questo aspetto é poco trattato. In più io sono per primo un disagiato essendo addicted di Facebook, di Twitter. Il fatto di voler girare un horror… Io non sono un horrorofilo convinto, però volevo fare un film che parlasse al pubblico di cui parlava.
Quale aspetto del disagio giovanile nel rapporto con la rete volevi mettere in luce?
Simone Gandolfo: Quello che mi colpisce del rapporto con la rete é che la rete ti protegge apparentemente, perché c’è uno schermo tra te e l’altra persona. Però ti priva dell’unica cosa che fa si che l’animale non soccomba nella giungla, ovvero l’istinto. Se io e te siamo vicini e tu mi vuoi fregare lo sento prima da come parli, dal tuo odore, da come ti poni. Sulla rete non accade. Quando i rapporti della rete si trasportano nella realtà, si mantengono le dinamiche virtuali.
In più Facebook ti dà l’illusione di essere meno solo, ma in realtà é la solitudine più grande che ci possa essere quella di stare davanti ad un computer. Un’ altra dimensione che mi interessava era quella del voyeurismo, Luca ne ha avuto un esperienza diretta con il Grande Fratello tanti anni fa.
Come hai costruito i personaggi, le loro fobie?
Simone Gandolfo: l’inconsapevolezza di quello che stanno facendo, l’illusione che fino all’ultimo é un gioco e non ti può accadere niente, viene da uno di quei racconti di cui parlavo, dove due ragazzi per cinquanta euro di fumo ammazzano un loro compagno a badilate. Quando i carabinieri li scoprono e li portano via il commento di uno dei due é :” ma allora non potrò fare il carabiniere da grande?” L’inconsapevolezza totale. Le fobie le ho costruite secondo archetipi horror classici.
Perché hai scelto l’horror e questo stile di horror?
Simone Gandolfo: ci sono tre modelli. Dal punto di vista del plot é il primo Saw. Dal punto di vista stilistico, il linguaggio e la fotografia, e il montaggio ho avuto due riferimenti, Let me in, e i fumetti di Enki Bilal, che costruisce sempre ambientazioni post atomiche. Un po’ anche Gus Van Sant. Per quanto riguarda le interazioni tra i personaggi, é di ispirazione Misfits.
Hai girato con delle reflex digitali?
Simone Gandolfo: si. Con 5D, 7D, e con la Redone che ci é servita per alcune scene a rallentatore. Per una questione di praticità. Avevamo una troupe di quindici persone e quattro settimane per girare un film. Abbiamo girato circa venti tra gli per scena. Avevamo bisogno di privilegiare la velocità di messa in opera. In più avevo bisogno, per restituire l’angoscia di quei posti, un sensore grande che mi consentisse di avere un fuoco selettivo. Abbiamo girato, inoltre, con degli obiettivi che si chiamano tilt&shift fotografici, della Canon, luminosi. Quasi sempre sempre luce naturale anche di notte. Alcune scene le abbiamo fatte con i fari della macchina e un led a mano.
Come nasce la collaborazione con Ezio Gamba?
Simone Gandolfo: la collaborazione con Ezio è antica. Tutti i lavori da regista che ho in atto tra istituzionali, spot, corti, li ho fatti con Ezio. Abbiamo una sensibilità artistica molto simile, e in più é una persona che lavora sempre per il bene del film.
Perché la scelta di girare in inglese?
Simone Gandolfo: per le vendite all’estero. Abbiamo già delle trattative con la Germania, con gli Stati Uniti e col Giappone. Volevo che l’ambientazione fosse una sorta di non luogo. In Italia uscirà doppiato. Da gennaio lo presenteremo in italia.
Come hai trovato gli attori?
Simone Gandolfo: Marta Gastini su Facebook. L’avevo vista ne Il Rito e me ne sono innamorato, artisticamente parlando, perché lei ha quello che Godard chiama la fotogenie, un dono. Non la conoscevo e le ho mandato un messaggio su Facebook, un messaggio estremamente formale in cui alla fine linkavo tutto quello che avevo fatto, come credenziali, per non sembrare uno stalker. Pietro già scrivendo pensavo a lui. Con gli altri ho fatto dei provini, in parte su Skype.
Quale é stato il budget?
Simone Gandolfo: centomila euro compreso il doppiaggio. Con tutta la troupe in compartecipazione.
Come hai scelto gli ambienti in cui hai girato?
Simone Gandolfo: io volevo che il loro fosse un viaggio verso il nulla. Una volta ero all’auto girl e c’era una madre col figlio che guardavano fuori. C’erano delle mucche e il bambino fa : “che cani grandi“. Volevo che i protagonisti fossero immersi in una realtà molto diversa dalla loro. Il riferimento é post atomico ma in realtà se vai nella bassa padana il paesaggio é quello. Gli unici interventi di scenografia sono nella cascina.
E la scelta di non insistere sullo splatter?
Simone Gandolfo: é una scelta puramente estetica. A me lo splatter non fa paura e genera una sorta di imbarazzo e di ilarità. Volevo che tutto fosse più sottile.