Matteo Garrone torna al cinema con Io, Capitano: il viaggio epico di due ragazzi attraverso il continente africano, ma anche una favola sul passaggio all’età adulta e la separazione traumatica dalle proprie origini e dai propri affetti.
Fin dagli inizi, il cinema di Matteo Garrone ha trovato la sua più grande forza nel peculiare metodo di lavorazione scelto per realizzare i suoi film, girati sempre in ordine cronologico, cambiati all’occorrenza, in corso d’opera, in base alla reale traiettoria dei personaggi – alle sue deviazioni rispetto alla sceneggiatura – e di chi li deve mettere in scena sullo schermo (tenendo conto, quindi, anche di come cambia nel tempo la percezione degli attori rispetto ai loro ruoli).
La loro evoluzione, pur essendo messa nero su bianco nel copione, sembra avere una coerenza impossibile da raggiungere se non in un film di Garrone, che spesso sceglie di tenere all’oscuro i propri attori del quadro complessivo, di fornire loro indicazioni di volta in volta, dandogli il privilegio di potersi stupire dello svolgimento della storia e delle svolte narrative che magari non si aspettavano di dover affrontare.
È questo il procedimento che è stato adottato anche per Io, Capitano: viaggio epico dal Senegal all’Italia, odissea raccontata con l’ambizione di definire un immaginario cinematografico (quello relativo ai luoghi coinvolti nei tragitti dei migranti attraverso il continente africano) fino a questo momento inesistente o comunque mai dettagliato (e ricostruito) in questa maniera e su questa scala di grandezza.
È chiaro, quindi, come in questo caso, avendo scelto di raccontare la traversata come una specie di road movie, facendone una storia di avventura (anche se tragica e dolorosa) e di amicizia, Garrone abbia avuto la possibilità di sublimare quel metodo di lavorazione che ha sempre adottato, di perfezionarlo e di renderne evidente l’efficacia, raggiungendo una naturalezza (di recitazione, narrazione e ritmo) che altrimenti sarebbe stato difficilissimo ottenere.
Io, Capitano: dal Senegal all’Italia
Il suo cinema non insegue mai la rigida dissonanza tra sensazioni opposte e la loro facile riconciliazione, dove ogni abbraccio non può prescindere dal dramma che lo precede, bensì si muove in maniera rapida e secca tra durezza e dolcezza nelle loro espressioni più pure, facendo seguire ad una scena carica dei migliori sentimenti, una che invece racchiude in sé quelli peggiori, senza soluzione di continuità e – in questo caso – persino senza troppi stacchi di montaggio.
In questo viaggio di “disobbedienza” rispetto ai consigli della propria famiglia (evidente il riferimento al precedente Pinocchio), i due giovani cugini senegalesi – Seydou Sarr e Moustapha Fall, da cui Garrone tira fuori il meglio – condividono paure, gioie e dolore, accogliendo in sé tutte le emozioni contrastanti che un’epopea così totalizzante suscita nell’animo di chi la compie. La loro casa, il Senegal, è rappresentata nel film come un luogo di luce, colmo di colori e di affetti.
È un pieno che dà avvio al loro viaggio, che lentamente scolorisce a mano a mano che i due protagonisti se ne allontanano. Io, Capitano diventa così la storia dell’ingenuità di chi ha tutta la vita davanti e la voglia di costruirsela seguendo i propri sogni e le proprie ambizioni, schiacciata dalla tragica realtà che conosciamo dall’altro lato dello schermo, fatta di corruzione, violenze, mafia, prigionia.
Un viaggio guidato dalla speranza
Garrone gioca costantemente su questa impossibilità per lo spettatore di partecipare interamente alla felicità, anche se momentanea, dei protagonisti del suo film: li vediamo felici per aver scampato un pericolo, per aver incontrato un nuovo amico sulla strada, per aver trovato un posto sicuro dove passare la notte, ma non riusciamo mai davvero a godere anche noi di quegli attimi di sollievo. Fugaci momenti di serenità, che i due attori rendono dolcissimi e teneri, che non trovano mai una completa aderenza dello spettatore, che già sa – a differenza loro – le insidie e le minacce che aspettano i due ragazzi nella tappa successiva del loro viaggio.
Questo scarto emotivo incolmabile trova il suo apice in un finale (un primo piano che rivela il cambiamento del personaggio sulla sua faccia, esattamente come accadeva in Dogman) che per i protagonisti ha il gusto della vittoria, mentre per chi guarda è solo un’illusione destinata ad infrangersi appena riaccese le luci in sala.