Jimi Hendrix, un’anima inquieta venuta da Marte

“Alla mia morte ci sarà una jam, puoi giurarci. Non voglio canzoni dei Beatles, ma qualche pezzo di Eddie Cochran e parecchio blues. Farò di tutto perché non manchi Miles Davis, sempre che abbia voglia di passare. Per una cosa così varrebbe quasi la pena morire. Quando non ci sarò più non smettete di mettere su i miei dischi.”

Sono queste le parole che James Marshall Hendrix scrisse su di sè poco tempo prima di morire, parole profetiche che non lasciavano presagire nulla di buono sul suo futuro, come se in qualche modo sapesse già che non sarebbe arrivato a compiere i suoi 28 anni. Jimi, anima inquieta, tormentata, passionale, istintiva, malinconica, completamente folle. Spirito libero, sognatore, costantemente alla ricerca di un proprio futuro artistico, magari accanto al grande Miles Davis, che adorava, guardando sempre con grande interesse ed ammirazione le sue idee, realizzate poi attraverso i suoi dischi, lasciandosi influenzare da queste. “Lui ha influenzato me e io ho influenzato lui. Ed è questo il modo in cui si fa la grande musica. Ognuno mostra agli altri qualcosa e da lì si va avanti.” Affermò Davis durante un’intervista parlando di Hendrix. Sognava di portare la sua musica verso orizzonti sconosciuti e crearne una che fosse quasi cosmica, ma si ritrovò invece con le ali spezzate e una morte prematura pronta ad accoglierlo a soli 27 anni. Era il 18 Settembre del 1970. Sono trascorsi 44 anni dal giorno in cui venne ritrovato morto e la sua carriera artistica, nonostante sia durata solo quattro anni, non si è mai conclusa veramente. Lui e la sua musica sono rimasti immortali.

jim4“Quando suono mi piacerebbe mischiare Handel e Bach, Muddy Waters e il flamenco. Se potessi ottenere questo sound, sarei felice.” Jimi, il mito per eccellenza, la leggenda del rock, colui che Rolling Stone mise al primo posto nella classifica dei migliori chitarristi di tutti i tempi. La mano sinistra di Dio, il folle che, in preda al blues, quasi ne fosse posseduto, bruciava e distruggeva sul palco le sue amate Stratocaster, dopo averle fatte vivere, e rese vive, in ogni modo possibile, attraverso qualsiasi parte del suo corpo, come un vero e proprio amplesso con una donna. Jimi, che a Woodstock, dinanzi al mondo intero, ebbe il coraggio spudorato di reinterpretare e distorcere, provocatoriamente e volutamente, The Star-Spangled Banner, l’inno degli Stati Uniti, considerato dagli americani come un vero e proprio inno sacro e in quanto tale visto come intoccabile ed inviolabile.A chi gli domandò perchè lo avesse fatto rispose: “Eravamo in America. Le cose erano finite e stavano ricominciando. Sai, come la morte che è insieme la fine e l’inizio. Ed è tempo per un altro inno ed è quello che sto scrivendo.” 

Ad una sua amica invece aveva confessato di provenire da un altro pianeta, da un asteroide staccatosi da Marte, e che il suo scopo nella vita era quello di dare alla gente una nuova energia. “Dare ai pensieri una dimensione universale è un’ottima cosa” diceva. Viveva sempre al limite, come se camminasse costantemente sull’orlo di un burrone in punta di piedi, e in quei quanttro anni, vissuti sempre in modo spericolato e a ritmo accelerato, registrò fiumi di musica, non sempre lucida, a volte grezza o soltanto accennata. Come si fa a raccontare una leggenda come lui senza snaturarne l’essenza? Deve essere stata questa la prima domanda che il regista premio Oscar John Ridley si è posto quando ha avuto la folle idea di portare sul grande schermo la vita di Jimi Hendrix, una sfida che mai nessun altro prima di lui aveva osato fare. Dalla sua follia nasce cosi il biopic sul chitarrista di Seattle Jimi : All is by my side, la cui storia focalizza un periodo ben preciso della vita di Hendrix, quello relativo agli anni 1966 e 1967, ovvero gli inizi della sua carriera artistica, cercando di mettere in risalto soprattutto le incertezze, le insicurezze e le contraddizioni di un uomo divenuto un mito a soli 23 anni, quindi il suo lato più umano, riservato, fragile e forse anche meno conosciuto. Un uomo timido, a tratti svagato, ma al tempo stesso determinato, che rivive attraverso i gesti e le movenze perfette di André Banjamin, rapper degli Outkast, in grado di rendere sullo schermo l’amore smisurato che Hendrix aveva per la musica.

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Durante la realizzazione del film Ridley non ha avuto affatto vita facile, infatti sembra proprio che gli eredi di Hendrix gli abbiano impedito di accedere al repertorio originale del musicista, ecco perchè, all’interno del film non sono mai presenti brani e filmati originali, sembra inoltre che l’ex fidanzata Kathy Etchingham abbia polemizzato su qualunque cosa riguardasse il film, dai costumi di scena alla scelta degli attori, mentre alcuni critici gli hanno rimproverato invece di non essere riuscito a riprodurre nel film la vera magia di Hendrix, la più nota, l’Hendrix di Woodstock, di Voodoo Child e di Monterey, che suona la sua Stratocaster bianca ad occhi chiusi, completamente immerso nel suono del suo blues, come se fosse in un totale stato di trance. L’intento del regista però era un altro: mettere in luce una parte fondamentale della vita di Jimi, la meno nota, quella che precede gli anni che lo hanno visto diventare una leggenda, un anno cruciale nella vita di Hendrix, che lo porterà poi ad affermarsi nella scena musicale della Swinging London per poi approdare sul palco di Monterey, che lo consacrerà definitivamente, consegnandolo alla storia.