Ad ottobre 2003 arrivava nelle sale americane Kill Bill Vol.1. A distanza di esattamente quindici anni quel film rimane ancora oggi una delle massime espressioni del cinema di Quentin Tarantino, in grado di proseguire il percorso di rielaborazione postmoderna cominciato con i suoi tre precedenti lavori e contemporaneamente portare alle estreme conseguenze la stilizzazione ironica della violenza. Il quarto lungometraggio arriva quindi dopo gli esordi pop de Le Iene e Pulp Fiction e dopo il film forse meno compreso del cineasta americano: Jackie Brown, un vero e proprio saggio sullo studio di un personaggio al cinema (il “Rio Bravo” di Quentin Tarantino). Kill Bill Vol.1 è un film la cui trama è tanto semplice da essere quasi superflua (“anche Amleto era una banale storia di vendetta”, spiega Tarantino) e nel quale non è mai davvero rilevante l’intreccio ma solo il modo in cui ogni azione viene resa su schermo. Non a caso quindi Kill Bill Vol.1 è forse l’opera di Tarantino in cui è più evidente lo sforzo di rimaneggiare i numerosi modelli di riferimento per includerli e superarli attraverso la creazione di qualcosa di nuovo ed originale ma sempre riconducibile a memorie cinematografiche (individuali o condivise con il pubblico) ben identificabili.
Il “ladro” Quentin Tarantino
Quello che Tarantino compie per realizzare Kill Bill Vol.1 è quindi un vero e proprio “saccheggio” di idee provenienti dal cinema di vendetta più spietato (la relazione fra Sonny Chiba ed Uma Thurman in Kill Bill ricorda quella fra Raquel Welch e Robert Culp in Hannie Caulder, così come il personaggio di Daryl Hannah si basa su quello di Christina Lindberg nel controverso film svedese They Call Her One Eye) e di trovate visive appartenenti ad un certo filone di cinema asiatico. La scena di combattimento che si svolge nella Casa delle Foglie Blu, ad esempio, si ispira a quella famosa di The Chinese Boxer di Wang Yu: si tratta del primo film cinese in cui il protagonista non combatte con la spada ma a mani nude e nel quale compare per brevi sequenze anche il padre di Yuen Woo-ping, coreografo proprio di Kill Bill. La gang dei Crazy 88 arriva invece direttamente dal film Black Lizard di Kinji Fukasaku: O-Ren è per metà cinese e per metà giapponese, così anche la sua “armata”, composta da 44 cinesi e da 44 giapponesi (i costumi usati per le loro divise nere sono quelli de Le Iene). È un dettaglio su cui il film non si sofferma ma che contribuisce ad approfondire una mitologia incredibilmente stratificata.
La grande abilità di Tarantino emerge infatti nella creazione di un universo in cui ogni cosa possiede una propria narrazione che appare coerente pur non necessitando di spiegazioni: ciascun personaggio ha una propria origine, ogni elemento di scena una storia che spiega perché sia lì, ma tutto questo non deve essere per forza rivelato a chi guarda. Non a caso Tarantino afferma in una delle interviste per il press junket di Kill Bill Vol.1: “Sarei in grado di spiegarvi come Hattori Hanzo sia finito ad Okinawa e del perché per trent’anni non abbia forgiato neanche una spada, così come conosco precisamente l’identità del personaggio interpretato da Kenji Ohba, eppure non sono tenuto a dirvi nulla di tutto ciò”. In Kill Bill Vol.1 c’è quindi un po’ di Kenji Misumi (l’esplosione di violenza come quella di Shogun Assassin) e un po’ di Takashi Miike (Ichi The Killer è uno dei film preferiti di Tarantino). Il tramonto color arancio sullo sfondo della scena in aeroplano rievoca la sequenza iniziale di Goke, Body Snatcher from Hell di Hajime Sato e lo stesso Tarantino chiese ai suoi collaboratori di ricreare una miniaturizzazione di Tokyo per girare alcune scene del film, così da ottenere un effetto simile a quello che si aveva con i fondali di War of the Gargantuas.
Trasformazione di genere
C’è una frase chiave nel Volume 1 di Kill Bill che The Bride pronuncia al suo risveglio dal coma: “I could see the faces of the c**ts who did this to me and the d*ck responsible”. C’è quindi una rigida distinzione fra le esecutrici della violenza (le DVAS, identificate con un dispregiativo al femminile) e chi invece quella violenza può commissionarla, apostrofato con un insulto che si riferisce al suo sesso maschile e che anticipa quella trasformazione di “genere” attraverso la quale la protagonista potrà strappare il potere dalle sue mani ed usarlo a proprio vantaggio (una trasformazione quindi che è anche sessuale). Se all’inizio infatti il “Pussy Wagon” viene guidato da Buck, il maschio che considera The Bride un semplice strumento per il piacere da vendere al miglior offerente, dopo il punto di svolta narrativo del coma, la protagonista ruberà il furgone ed il nome scritto con la vernice sul retro del veicolo assumerà un significato diverso, per cui l’organo sessuale femminile non sarà più oggetto di sottomissione ma simbolo di dominio.
Questa trasformazione sarà completa nel momento in cui The Bride arriverà ad Okinawa per prendere possesso della spada di Hattori Hanzo (interpretato non a caso da un idolo dello stesso Tarantino, Sonny Chiba, citato in True Romance ed in Pulp Fiction). Ancora una volta è l’uomo ad essere ridotto a personaggio secondario, a comparsa, mentre è la donna a compiere definitivamente la sua “castrazione” sottraendogli la spada, ultimo simbolo di un predominio maschile ormai in disfacimento (lo stesso Hanzo sarà privo di tutti i caratteri tipici con i quali vengono solitamente descritti gli uomini nel cinema di samurai). Kill Bill Vol.1 è un film che proviene da un regista senza “padri”, figlio di una generazione cresciuta senza figure maschili di riferimento. Lo stesso Tarantino, infatti, è stato accudito da una madre single. Non è quindi un caso se Bill (una delle figure paterne centrali nel film, essendo il “padre” del figlio mai nato della stessa protagonista) è sempre presente sullo sfondo come una minaccia costante ma non ci è mai dato vederlo.
Cinema d’azione e animazione
Ma Kill Bill Vol.1 è anche un manifesto stilistico ben preciso. Tarantino sceglie ad esempio di cambiare lo “stock” di pellicole utilizzate per le riprese (addirittura passando dal bianco e nero al colore) all’interno di una stessa sequenza di azione, senza per questo perdere nulla in fluidità. Uno stratagemma utilizzato già in Natural Born Killers di Oliver Stone seguendo le direttive di regia messe nero su bianco nella sceneggiatura originale (scritta appunto da Tarantino). Questa vivacità visiva rende chiaro il collegamento indissolubile che c’è fra cinema d’azione, di cui Kill Bill è uno dei massimi esponenti, e cinema di animazione. Entrambi infatti si basano sul disegno dei corpi in movimento e sulle traiettorie che questi seguono sullo schermo. Non deve quindi stupire se Tarantino si sia servito di animatori professionisti non solo per le parti “anime” del suo film, ma anche per le sequenze di combattimento in live action. Così anche le luci di Robert Richardson (storico direttore della fotografia di Quentin Tarantino) in Kill Bill Vol.1 si adeguano all’azione: man mano che la minaccia si sviluppa ed il combattimento si fa più coinvolgente, lo stile dell’illuminazione cambia per riflettere la natura grafica della lotta, gli sfondi svaniscono e l’arena in cui si svolge l’azione diviene centrale.
East and West
Kill Bill riesce come pochi altri film ad unire la tradizione del cinema asiatico con la cultura americana. Nel film ci sono riferimenti quasi incomprensibili per un pubblico non statunitense, così come scambi fra personaggi difficili da capire se non si conoscono le usanze orientali. Emblematico dello sforzo di unire queste due culture così distanti è l’utilizzo del tema musicale di Ironside firmato Quincy Jones: un brano proveniente da una serie TV americana (quindi immediatamente riconoscibile dal pubblico statunitense) eppure famoso anche in Giappone, dove è stato utilizzato per il film Five Fingers of Death di Chang Ho Cheng ad accompagnare le transizioni in cui lo schermo si riempie di sangue. Quindi se l’effetto sul pubblico americano è inizialmente di straniamento (perché la sigla di un vecchio poliziesco televisivo viene utilizzata in un film che nulla ha a che vedere con quel genere) e di ilarità, il pubblico giapponese riesce invece a capire immediatamente lo scopo di quel tema, ovvero annunciare un imminente combattimento (gli spettatori americani ed europei lo capiranno invece solo ad una seconda visione).
“La vendetta non è mai una strada dritta: è una foresta”, afferma Sonny Chiba in un memorabile discorso del film. Se Kill Bill Vol.1 è la strada dritta, una escalation lineare di efferatezza per cui alla violenza non può che seguire altra violenza, Kill Bill Vol.2 sarà la foresta. Una di quelle in cui è “facile smarrirsi”, fino a “non sapere più dove sei né da dove sei partito”.