A pochi giorni dall’uscita dell’attesissimo Killers of the Flower Moon, è tempo di ascoltare ciò che Martin Scorsese ha da dire al riguardo.
Il nuovo kolossal di Martin Scorsese, che racconta con grande precisione il “genocidio silenzioso” e progressivo della comunità Osage negli anni ’20, perpetrato dai capitalisti bianchi, non nasce dal nulla, ma è il risultato di un’idea covata a lungo. Addirittura da quasi cinque decenni.
Durante un’intervista al New Yorker, il regista ha spiegato di aver iniziato a pensare di fare un film sul tema già negli anni ’70, un periodo in cui Hollywood non era davvero interessata a raccontare storie che avessero come protagonisti personaggi nativi americani ricchi di sfumature.
Tuttavia, Scorsese era all’epoca troppo giovane per comprendere appieno i problemi degli Stati Uniti, le loro colpe e i loro delitti. “Penso che la prima idea di un film sul tema risalga al 1974, quando ho avuto l’opportunità di trascorrere un po’ di tempo, un giorno o due, con la tribù Oglala Lakota (Sioux), nel South Dakota, e sono stato coinvolto in un progetto che poi non ha mai visto la luce” ha raccontato il regista.
“È stata un’esperienza traumatica, ed ero così giovane che non capivo. Non capivo il danno che era stato causato loro, la povertà senza via d’uscita in cui si trovavano. Sono cresciuto con la povertà, ma di un altro tipo, quella degli uomini e delle donne della classe operaia di Elizabeth Street, Mott Street e Mulberry. Ero cresciuto in un contesto di povertà, ma non avevo mai visto niente di simile, e non so spiegare perché: la loro era una condizione senza speranza”.
Ci è voluto un po’ di tempo prima che Scorsese capisse che quella condizione era legata al disprezzo del governo americano per la propria storia e ai pregiudizi contro i nativi americani. “Ho incontrato di nuovo alcuni nativi americani a Los Angeles in quel periodo e abbiamo parlato di un altro progetto.
E ho riflettuto sui tentativi di raddrizzare i torti dei film di Hollywood con opere come Broken Arrow, Drum Beat, Apache, Devil’s Doorway: tutti i film che consideravo a favore dei diritti dei nativi americani”, ha spiegato Scorsese. “Certo, c’erano ancora attori bianchi americani che interpretavano i nativi americani, ma le storie erano bilanciate e c’era rispetto per la cultura dei nativi americani, in particolare in Broken Arrow”.
Scorsese, però, giudica adesso quel suo pensiero molto infantile, riconoscendo l’errore di credere che in quel modo gli Stati Uniti avessero affrontato i propri pregiudizi e fatto i conti con il proprio razzismo. È stato solo quando ha avuto l’occasione di visitare diverse tribù che si è reso conto che quelle persone erano state eliminate dalla storia, dalla cultura, non solo cinematografica, americana. “Eravamo bambini e ci bastava quell’assimilazione forzata delle popolazioni native”, ha continuato. “All’epoca non potevo sapere. Quando ho visto la realtà, ho capito che era ben diversa da quanto ci era stato raccontato”.