Cosa sono quelle gambe che penzolano fuori dal cassonetto dell’immondizia? E chi è che sta offrendo un mazzo di fuori allungando il braccio oltre una breccia nel muro? Queste domande avranno affollato i pensieri dei passanti che, attraversando il quartiere romano di Torpignattara, si sono imbattuti nelle opere d’arte di Mark Jenkins. L’artista americano è sbarcato per la prima volta a Roma per esporre con la sua personale Living Layers alla galleria Wunderkammern fino al 26 aprile. Le opere d’arte di Jenkins sono autentiche “invasioni di campo” da parte dell’artista che, attraverso le sue sculture iperrealiste, secondo la definizione data dalla critica, attua delle vere e proprie incursioni all’interno del contesto urbano. Le sue sculture modificano l’ambiente cittadino, rendendolo un paesaggio surreale, misterioso, visionario. Certo è che vedere quelle stesse sculture poste in un museo ne depotenzia l’esponenziale vivacità e acutezza espressiva. Anche perché il vero valore aggiunto della comunicativa di Jenkins è questo continuo interporre l’oggetto al contesto. Un contesto urbano in continuo mutamento, ma nonostante ciò di cui ancora si percepiscono gli elementi estranei all’aspetto comune.
È dai luoghi più impensati che emerge l’arte. E’ da un cassonetto dell’immondizia o dal muro perforato, dal tetto di un albergo o a terra tra i rifiuti che spunta l’opera dell’urban artist americano. Un rapporto dialettico continuo tra l’arte e la realtà. Apparenza e verità ingannano nella stessa misura. In quale forma le suggestioni viaggiano lungo la strada che quotidianamente percorriamo ignari di divenire comprimari di un’opera d’arte? Operazione. Operare. Opera. Stessa radice per il mistero universale del fare. E, dunque, dell’essere.