E’ uscito ieri nelle sale italiane The Visit (qui la nostra recensione), nuovo horror del regista indiano M. Night Shyamalan, tornato sul grande schermo dopo il deludente tentativo televisivo Wayward Pines. Il cineasta, negli ultimi anni, ha collezionato una serie di passi falsi non di poco conto, ma sembra che il ritorno alle atmosfere cupe e orrorifiche del suo debutto abbia dato i suoi frutti, rilanciandolo con un film teso, fresco e ironico. La fama di cui ancora oggi il regista gode, e che permette alle case di produzione di puntare sulle sue pellicole nonostante gli ultimi insuccessi qualitativi e commerciali, è sicuramente dovuta al celebre Il sesto senso, pellicola divenuta con il passare degli anni un vero e proprio monumento cult in grado di appassionare anche gli spettatori più giovani. Nonostante la pellicola non possa definirsi pienamente compiuta in tutti i suoi aspetti, a causa di una sceneggiatura fin troppo furba e prevedibile, è innegabile come Il sesto senso si sia posto come imprescindibile manifesto della sensibilità artistica del cineasta, riuscendo a tracciare quei temi e quelle atmosfere che torneranno in maniera ricorrente nella sua successiva carriera. I bambini, per esempio, elementi immancabili nel tessuto narrativo delle sue pellicole, tendono a presentarsi come medium in grado di accogliere messaggi e vibrazioni provenienti da diverse sfere della percezione, in quanto anagraficamente e spiritualmente più vicini alla più pura e incontaminata essenza del mondo che li circonda. Non solo filosofia orientale e spiritualità mistica, ma anche il naturalismo romantico di scrittori e pensatori americani quali Emerson e Hawthorne, in una concezione che non mostra mai il soprannaturale come intervento o emanazione di forze divine, bensì come elemento costitutivo della stessa personalità umana.
È per questo che in film come Unbreakable, considerato come uno dei più interessanti del regista, molti appassionati hanno ipotizzato che i “poteri” in possesso del personaggio di Bruce Willis non fossero altro che suggestioni della sua mente, piuttosto che veri e propri fenomeni paranormali. Questi sono i temi che ricorrono anche nel successivo Signs del 2002, se pur non approfonditi con la stessa consapevolezza e abilità che nelle prime due pellicole, per un film che richiama lo Spielberg di Incontri ravvicinati del terzo tipo e ancora una volta gioca sul tema del paranormale e della religione. Nonostante le buone premesse, però, e una prima parte davvero memorabile, la quasi totale assenza di suspense, insieme a delle interpretazioni non proprio brillanti e a degli scivoloni sul finale, non permisero al progetto di ottenere il successo sperato. Fortunatamente, però, M. Night Shyamalan riuscì dopo poco tempo a riacquistare interesse tra il grande pubblico con il controverso e interessante The Village, con Joaquin Phoenix e Adrien Brody, per la bellissima e sapiente fotografia di Roger Deakins. Proprio in questo ultimo film, probabilmente il più compiuto e riuscito del regista israeliano, la teoria filosofica di un Fuori che interviene per scombussolare le vite dei protagonisti, di forze esterne e impalpabili, è portata al suo culmine. Shyamalan, abile nel far coesistere le esigenze più prettamente commerciali, mai perse di vista, e le istanze più autoriali e personali, costruisce un film lineare, quasi proppiano nel suo incedere, in cui la fragile realtà iniziale è chiamata a scontrarsi con inevitabili rotture e laceranti epifanie.
Come altre produzioni precedenti, The Village è immerso in atmosfere mistiche e orientaleggianti, elementi fondanti di una “fiaba adulta” che mina alla base la tragica condizione di un occidente in piena crisi di valori, non più interessato in esperienze naturali e metafisiche ma solo in un materialismo logorante che rende i suoi abitanti machiavellicamente, e hobbesianamente, lupi di se stessi. Al centro della storia un villaggio isolato dal resto del mondo circostante, popolato da abitanti che, avendo conservato intatta la loro rurale primordialità, sono spaventati dall’oltrepassare quei confini imposti dai “saggi” per proteggere la comunità dai “mostri” dell’esterno. E’ evidente come Shyamalan, posizionando temporalmente questo ideale villaggio nei primi anni dell’ottocento americano, giochi sulla dualità illuministico-romantica, tra un mondo liberato dalla magia e sopraffatto dalla luce della ragione più pratica e quello ancora legato alla tradizione di superstizione e folclore popolare. Nel 2009 il regista ci riprova con il poco conosciuto Lady in the Water, ultimo di una serie di progetti interessanti prima di una lunga e repentina discesa qualitativa. Il film, pur presentando alcuni momenti riusciti e ben costruiti, sembra non decollare mai, trattenuto da una sceneggiatura fin troppo banale e priva di mordente e da una narrazione spezzettata e confusionaria.
Purtroppo, però, negli ultimi anni, una serie di insuccessi e di pellicole scadenti e poco ispirate, da L’ultimo dominatore dell’aria al flop clamoroso di After Earth con Will Smith e figlio, avevano portato molti spettatori a considerare ormai finito un autore in evidente crisi creativa. In seguito alla breve e deludente incursione televisiva, sembra però che il regista israeliano sia finalmente riuscito a ritrovare la propria strada, ritornando alle origini della propria carriera artistica, riprendendo in mano quel genere horror che nel 1999 riuscì a garantirgli fama e riconoscimenti unanimi. The Visit, infatti, riesce a porsi intelligentemente come un ottimo esperimento in bilico tra passato e presente, da una parte la modernità della narrazione, attraverso un mockumentary reinventato e svecchiato, dall’altra la classica ironia della tradizione orrorifica anni ’80. Liberandosi dei vincoli delle grandi case di produzione, e curando personalmente ogni dettaglio della pellicola, Shyamalan sembra aver finalmente ritrovato una sana e produttiva ispirazione creativa che, speriamo, possa accompagnarlo ancora per molto tempo.