A volte il cinema è tutto in uno sguardo, non quello del pubblico ma quello rivolto ad esso dall’altra parte dello schermo: Memorie di un assassino inizia e termina proprio con due occhi rivolti in camera, i primi quelli di un bambino e i secondi quelli di uno dei principali protagonisti. Prologo ed epilogo uniti da una sorta di catena-legame che ben riassume quanto accadente nel mezzo, e con esso l’istintiva semplicità di un film che adopera diverse linee stilistiche e coordinate narrative per mettere in scena una storia dall’innata, e perturbante, tragicità.
La seconda fatica dietro la macchina da presa di Bong Joon-ho arriva per la prima volta nelle sale italiane il prossimo 13 febbraio sulla scia del grande riscontro del celebrato Parasite (2019), ultima opera del regista la cui fama è destinata ad aumentare dopo le sei candidature agli imminenti Oscar, con quella per miglior film straniero già in tasca e un possibile, auspicabile, exploit anche per il premio più importante di tutti.
Memorie di un assassino è tratto da un discusso caso di cronaca nera avvenuto negli anni ’80 in Corea del Sud. Siamo per l’esattezza nel 1986, in una cittadina di campagna dove la tranquillità viene sconvolta dal ritrovamento del cadavere di una ragazza in un campo. La vittima, stuprata e brutalmente uccisa dal misterioso assalitore, non è però l’unica e solo qualche giorno dopo viene rinvenuto un altro corpo senza vita.
Il simile modus operandi fa pensare che i due delitti siano collegati e che siano opera di un serial killer: il detective Park Du-man e il suo manesco collega Cho Yong-gu conducono le indagini, pensando di aver individuato il responsabile in una ragazzo della zona con handicap mentale. I metodi poco ortodossi delle autorità locali, con brutali interrogatori per estorcere una potenziale confessione, si risolvono con un nulla di fatto e da Seoul viene mandato un collega più esperto perché li affianchi nell’investigazione. Ma la scia di morte continua e la polizia brancola nel buio…
Leggi anche: Cannes 70: Okja, il film Netflix tra fiaba e denuncia
Se con Parasite Bong è riuscito a trasformare un profondo discorso sulla lotta di classe in un raffinato melting pot di generi e influenze, con Memorie di un assassino ha trovato l’idonea chiave di lettura per esprimere attraverso le dinamiche de poliziesco i mali e le contraddizioni di un Paese coma la Corea, moderno e sviluppato ma ancora fermo dietro a vizi e schemi passati. In particolar modo l’ambientazione ottantiana, spazio temporale dove ha luogo il racconto, si offre a diverse sfumature sociali e politiche nel corso dei sempre più burrascosi eventi e la “mano dura” della polizia è sviscerata con un originalissimo mix tra cupezza e ironia, ennesima decostruzione del genere filtrato qui in un’ottica lucida e personale.
Perché fin dai primi minuti nel film convivono una stralunata, ficcante, comicità e una verve drammatica e cruda nella miglior tradizione del filone, in un mix accattivante e sempre ricco di sorprese nelle due ore di visione. Se nel futuro Madre (2009), altra raffinata indagine psicoanalitica nelle ingiustizie, il regista aveva concentrato i suoi sforzi su un’odissea privata dolente e solenne, in quest’occasione il cuore della vicenda non può fare a meno delle sue anime complementari, elementi necessari alla fine di una coesione complessiva che sappia unire un sano intrattenimento a prova di grande pubblico a spunti di riflessione per nulla banali.
Con la componente thriller sempre in sottofondo e pronta ad esplodere in una manciata di scena madri dall’alto tasso tensivo, tra forsennati inseguimenti per le strade cittadine e agguati dall’esito amaramente scontato, Memorie di un assassino sa come e dove colpire, senza sbavature di sorta in un senso o nell’altro. La magistrale colonna sonora, perfetta partitura emozionale d’accompagnamento, l’arguzia narrativa ben presente anche nella stesura di dialoghi e battute, un approccio al macabro / grottesco che evita derive eccessive, completano un quadro di armonica e disarmante perfezione, ulteriormente impreziosito dalla maestose performance dell’affiatato cast.
Se Kim Sang-kyung svolge il compito di personaggio serio e cool, sempre pronto a fare la cosa giusta ma cedente nel finale ad un comprensibile vagito rabbioso, a fargli da ideale contraltare è l’ingenuo detective di Song Kang-ho, ormai celebrità internazionale e feticcio del cineasta, che proprio nei suoi sbagli e nelle sue debolezze risulta la figura più, maldestramente, umana del racconto: il rapporto tra i due si evolve vicendevolmente, lasciando che la profondità dei due relativi alter-ego tragga forza proprio dal loro scambio di vedute.
Memorie di un assassino riesce quindi in un’impresa per nulla facile con una semplicità inaspettata, dosando toni e atmosfere attraverso la duttilità della propria essenza cinematografica, mai doma e adagiata sugli allori ma sempre pronta a sparigliare le carte con un’intensità rapente e avvolgente che metteva in luce, già nel lontano 2003, tutta la maestria di uno dei massimi registi contemporanei, conscio delle proprie capacità e dotato di un approccio espositivo e contenutistico con pochi eguali.