Roland Emmerich, regista tedesco che in passato è stato uno dei massimi esponenti dell’industria action hollywoodiana, da Independence Day a The Day After Tomorrow, nel 2019 si trova a dirigere un film come Midway, dovendo mettere insieme il budget necessario al di fuori degli States e ricorrendo principalmente ai finanziamenti provenienti dalla Cina (la cui influenza su Midway è evidente in diversi punti). Quel genere di “war movie” tutto esplosioni e spettacoli pirotecnici oggi non è più considerato appetibile dai grandi studios americani (che infatti hanno risposto picche quando Emmerich ha cercato di coinvolgerli nel progetto) ed è diventato appannaggio di autori come Nolan (Dunkirk) o Mendes (1917). E forse solo Netflix può permettersi oggi di finanziare progetti come quelli di Roland Emmerich o Michael Bay (il cui prossimo film, 6 Underground, non a caso arriverà direttamente sulla piattaforma streaming).
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In Midway, la Cina svolge un ruolo importante sia a livello produttivo che a livello narrativo. La sceneggiatura di Wes Tooke si sofferma molto (e non casualmente) sulle conseguenze dell’incursione aerea su Tokyo del 18 aprile 1942, quando gli aerei degli Stati Uniti d’America condussero il loro primo raid in territorio giapponese, come risposta agli attacchi di Pearl Harbor. Le conseguenze di quella incursione aerea non ricaddero tanto sugli americani (il raid fu in realtà meno efficace di quanto sperato, ottenendo come unico vantaggio quello di diminuire la capacità aerea giapponese nel Pacifico) ma soprattutto sui cinesi. Come punizione per l’aiuto che gli abitanti dei villaggi e i missionari diedero ai piloti statunitensi, infatti, il Giappone fece uccidere circa 250.000 cinesi considerati complici degli americani. Un massacro che per anni è rimasto taciuto e la cui reale entità è stata scoperta solo recentemente grazie ad alcuni documenti della DePaul University.
Quello che manca ad Emmerich è però la capacità di raccontare molto attraverso il design (come faceva Tony Scott) o attraverso la magniloquenza delle immagini (come invece fa Michael Bay). Nè possiede il rigore del cinema di guerra di un tempo, a cui spesso Midway rimanda (primo fra tutti Berretti Verdi di Wayne, Kellogg e LeRoy). Emblematico di questa carenza è il cameo di John Ford (interpretato da Geoffrey Blake). Il regista si trovava davvero sulle isole Midway con la sua troupe cinematografica nel momento della battaglia e venne addirittura ferito alla spalla da alcune schegge (nonostante ciò continuò a girare il materiale che confluì ne La battaglia di Midway del 1942, documentario per il quale vinse un Oscar e un Purple Heart). Ma la sua presenza nel film è solo una nota di colore, una piccola curiosità per stuzzicare lo spettatore, mai un omaggio a quel modo di fare cinema o a quel modello di film che Ford inventò.
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Emmerich non sembra voler “attualizzare” una vecchia idea di cinema, né ha l’interesse nel creare qualcosa che incontri davvero i nuovi gusti del pubblico moderno. Il suo essere ostinatamente démodé (a cominciare dagli effetti digitali) è sia un punto di forza, nel momento in cui tratta i suoi personaggi non come strumenti del meccanismo cinematografico ma in quanto esseri umani con paure e aspirazioni proprie, sia un punto di debolezza, quando fallisce nel trovare la giusta misura. Ciò che lascia Midway allo spettatore è però una sensazione di genuino stupore nell’assistere alle prodezze che furono compiute: la sorpresa davanti all’incredibile precisione del pilota Dick Best, l’ammirazione nei confronti degli operai che in 72 ore, lavorando senza sosta, rimisero in acqua l’enorme USS Yorktown, ridotta a colabrodo dopo la terribile Battaglia del Mar dei Coralli. Tutti, indistintamente, eroi. Quelli a cui è stato riconosciuto e quelli (la maggior parte) che hanno lavorato nel silenzio.