Abbiamo visto in occasione della sedicesima edizione del Far East Film Festival il secondo film dell’ex critico diventato regista Philip Yung: May We Chat. Ambientato ad Hong Kong il film racconta la storia di tre studentesse che senza conoscersi direttamente diventano migliori amiche su una chat telefonica, We Chat: Chiu Way-ying (Rainky Wai) è sordomuta ed è costretta ad aiutare la nonna che l’ha cresciuta facendo incontri a pagamento; Li Wing-yan (Kabby Hui) è ricca ma dipendente da metanfetamine e da frequentazioni con giovani delinquenti; e Wai-wai (Heidi Li) vive con la madre tossicodipendente e cerca di provvedere come può al sostentamento della sorella minore. Quando Li sparisce improvvisamente Chiu e Wai decidono di incontrarsi per ritrovarla. Ma il percorso per salvare Li sarà fitto di terribili ostacoli che metteranno a dura prova le loro già fragili esistenze.
Dopo Lonely Fifteen di David Lai Philip Yung torna a dirigere un’altra interessante storia di ribellione adolescenziale, stavolta collegata alle sempre più dilaganti dipendenze giovanili da smartphone e social network, May We Chat. Sospesa tra la commedia, il dramma e (a tratti) perfino il torture porn May We Chat è un’opera che diverte e allo stesso tempo sbigottisce lasciando lo spettatore in balia di molteplici sensazioni diverse. Perché se la parte iniziale del film ricorda più una classica commedia americana sulla incomunicabilità tra i giovani di oggi alcune scene dell’opera risultano talmente forti e gratuite (in primis il tentato stupro di Chiu) da suscitare più nausea che emozioni piacevoli. Inoltre non è facilmente comprensibile neanche il messaggio del film: Yung critica l’abuso dei social network o ne fa un elogio? Perché Chiu e Wai riescono a ritrovare Li proprio grazie a We Chat e inoltre instaurano una amicizia che da cibernetica quale era diventa qualcosa di ben più profondo, che le spinge addirittura a rischiare la loro stessa vita per la loro amica virtuale. Perfino la regia del film appare troppo confusa, oscillando tra i rumori fumettistici delle conversazioni telefoniche a siparietti comici a scene degne di The Human Centipede. Se solo Yung avesse fatto un po’ più di chiarezza sul messaggio finale del film forse May We Chat sarebbe potuto essere una grande opera sospesa tra la commedia, il dramma e l’horror. Ma così non è stato. E May We Chat risulta un’opera indecisa e a tratti confusa che pur divertendo solleva troppi dubbi per essere pienamente promossa.