hunger_02
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Nella sua opera prima, premiata con la Camera d’Or alla 61/a edizione del Festival di Cannes e come esordio più promettente ai BAFTA 2009, ma sconosciuta alla maggior parte del pubblico italiano, Steve McQueen narra cosa accadde negli H-Blocks del carcere di Long Kesh nel 1981. Qui vennero rinchiusi i militanti dell’IRA, i quali diedero inizio alla “Blanket Protest” e alla “Dirty Protest”, allo scopo di ottenere lo status di prigionieri politici , abolito nel ’76, che consentiva ai condannati per reati di terrorismo di indossare abiti civili invece della divisa carceraria e di avvalersi di alcuni dei diritti riconosciuti ai prigionieri di guerra. Il leader dei militanti rinchiusi a Long Kesh decide di iniziare uno sciopero della fame che durò sessantasei giorni e che lo portò a morire di inedia a soli ventisette anni.

McQueen

 crea una pellicola divisa in tre fasi, per spiegare l’uso che i militanti detenuti facevano del proprio corpo: nella prima mostra l’inferno all’interno del Maze (Labirinto, come veniva chiamato il settore degli H-Blocks), caratterizzato dalle sanguinose torture a cui erano sottoposti i detenuti prima di essere lavati. Qui Bobby Sands (Michael Fassbender) fa il suo ingresso in scena, massacrato in ogni punto del corpo nudo e pieno di rivoli di sangue sul volto. Mentre nella prima parte la mdp si incolla ai corpi e ai dettagli, lasciando che la materia esprima violenza, dolore, senso di ribellione, nella seconda parte un lungo piano sequenza di ventidue minuti fa sì che i dialoghi, scritti dallo stesso regista insieme al celebre drammaturgo Enda Walsh, diventino i padroni della scena. Sands incontra padre Moran (Liam Cunningham). Entrambi sono repubblicani, per entrambi la libertà è un valore da perseguire, ma in modo diverso. Inizia allora uno scambio di battute, concitato come un’incontro di pugilato, in cui Sands comunica all’uomo di chiesa di voler iniziare un drastico sciopero della fame per essere ascoltato dalle autorità governative. McQueen mostra con maestria pittorica sconvolgente per un’opera prima, come per i militanti dell’IRA, rinchiusi nel Maze, il corpo fosse l’unico veicolo attraverso cui potessero comunicare con l’esterno.

Ogni pertugio del corpo, che si prestasse ad essere un nascondiglio, veniva regolarmente utilizzato per passare le comunicazioni che arrivavano dall’esterno durante i rari colloqui concessi. Il corpo nudo diventa l’unica bandiera di una protesta la cui voce non viene ascoltata. Le torture e la denutrizione inflitte al corpo rimangono impresse negli occhi, mentre cadono addosso come piombo le parole del Primo Ministro Margaret Thatcher, che non cedette all’ultimo ricatto dei criminali degli H-Blocks. Interessante è la rappresentazione di questi militanti, entrati nel carcere come temibili terroristi della Provisional Irish Republican Army e, una volta all’interno del Maze, attraverso forti effetti pittorici opera di un meraviglioso uso della fotografia e delle luci, diventano l’immagine del Cristo agonizzante, ma mai rassegnati, perché la lotta per la causa richiede di far arrivare l’ideale al di fuori di se stessi. Allora artista materico come è, McQueen, riconduce tutto al corpo, all’espressività, in cui Fassbender ,come sappiamo già da Shame, non ha nulla da invidiare a nessun’altro interprete. Nella terza parte quindi il corpo, squassato dalla fatica e dal dolore, si fa pietra in un fotogramma che cita addirittura la pietà di Michelangelo, non tanto per velleità artistiche banali o per far apparire Bobby Sands come un martire, ma per mostrare visivamente come l’anelito alla libertà sia veicolato dall’unico mezzo rimasto a Long Kesh: il corpo.

Fassbender

, che proprio con Hunger iniziò la sua collaborazione con McQueen, è come al solito trasfigurato: non solo perde quindici chili in poche settimane, ma diventa irriconoscibile per via delle piaghe e della pelle disidratata. Hunger costituisce la prova che, ancor prima di Shame, McQueen è un artista dal talento prorompente e lieve allo stesso tempo, dalla sensibilità non convenzionale nei confronti del corpo, che per lui diventa specchio dell’anima.

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