Arriva nelle sale italiane, dopo alcuni mesi di attesa, la folgorante commedia argentina ideata e diretta da Gastón Duprat e Mariano Cohn, divenuta una delle sorprese più interessanti della scorsa mostra di Venezia, dove il protagonista Martínez si è aggiudicato una meritatissima Coppa Volpi per la sua interpretazione. Alla luce delle recenti vicende su Bob Dylan, ci fa quasi impressione la straordinaria lucidità con cui Il Cittadino Illustre dipinge il ritratto di un artista che, dopo la vittoria di un Nobel non voluto, cade in una crisi creativa che lo porta a rimettere in discussione tutta la sua carriera, tanto da spingerlo a tornare nella sua città natale.
Un luogo da lui sempre odiato, e sulla cui descrizione dispregiativa ha fondato tutto il suo successo letterario. Dopo averlo visto ci sentiamo di affermare che Il cittadino illustre non è solo uno dei film più intelligenti di questo 2016, ma è un grande esempio di come poter fare cinema in maniera brillante senza per forza ricorrere a grandi produzioni, ma solo facendo affidamento sulla forza delle proprie idee e sulla passione che le nutre, avendo la lucidità di perseguire un proprio percorso senza cedere a facili scorciatoie. La dimostrazione che, per citare lo stesso protagonista, “la semplicità può essere sovversiva”.
Una commedia che non risparmia nessuno
Il ritorno dello scrittore nel posto in cui è nato rappresenta un modo per fuggire dalla riconoscenza finta e stucchevole del mondo letterario, quella stessa riconoscenza che lo scrittore intende come il necrologio della sua creatività, per abbracciare invece la realtà genuina dei propri compaesani, divisi tra chi è disposto a offrirgli un “piatto di ravioli di cervella” e chi lo vorrebbe rispedire a calci nuovamente in Europa. E se il film si apre con una estremizzazione, ovvero la polemica contro un Nobel che lo soffoca, il resto della pellicola tratteggia in maniera quasi scientifica le grottesche abitudini della provincia, nelle quali è difficile in qualche modo non riconoscersi. I compaesani del protagonista sembrano prigionieri di un destino già scritto, attori di una farsa orrenda piuttosto che persone coscienti della propria esistenza.
Nonostante ciò, Mantovani sembra quasi preferire loro al mondo di plastica dei riconoscimenti ufficiali, scegliendo di inchinarsi davanti alla Miss Bellezza del paesino piuttosto che inginocchiarsi dinanzi ai re della monarchia svedese. Tutto questo per arrivare alla conclusione che gli “svogliati”, le persone senza poesia in cerca sempre della imitazione piuttosto che della unicità, non sono esclusivi della piccola Salas, ma comuni anche a New York, Berlino, Londra. Il “provincialismo” non è una questione geografica, ma una patologia sociale: il volere rinunciare alla grandezza, anche se a portata di mano, per confinarsi nella più facile e sicura mediocrità. Quella mediocrità fatta di intimidazioni quando le cose non vanno come si spera, di selfie consolatori e di una comunità che ha aspettato anni per poter far pagare a Mantovani la sua più grande colpa: quella di averli traditi. Perché il premio Nobel decide di tornare sapendo che non riceverà solo salamelecchi, ma soprattutto rancore e risentimento, e cosciente di dover incassare i colpi decide di rimettersi al giudizio impietoso del suo popolo.
Il cittadino illustre dal punto di vista stilistico è un lavoro asciutto e privo di fronzoli, così come la recitazione, sempre equilibrata e di spessore, con un Martínez in forma eccezionale. Ma questa povertà scenica non deve far pensare in una mancanza di cura, bensì al grande talento che ci vuole nel far ridere grazie ai più piccoli dettagli, dimostrazione di una minuziosa attenzione affinché ogni elemento sia al posto giusto nel momento giusto. Il grande merito de Il cittadino illustre è infatti quello di strappare il sorriso anche solo attraverso il montaggio, un piccolo suono, una impercettibile smorfia.
La mediocrità come livella sociale
E se spesso critici e recensori tendono a parlare con accezione quasi religiosa di arte e cinema, Il cittadino illustre ci riporta nella realtà, in un mondo dove tutto è condizionato da strategie economiche e politiche, da rancori e piccole vendette più che da sentimento e passione. Il film di Cohn e Duprat è cinico e violento come tutte le grandi commedie dovrebbero essere, mettendo in scena non tanto le debolezze dei potenti bensì le piccolezze della gente comune, di un provincialismo spesso volgare e ignorante.
Un cinismo che quasi fa sentire in colpa lo spettatore, che ride di bassezze per cui dovrebbe indignarsi e incassa i pugni allo stomaco che i due registi sferrano quando meno ce lo si aspetta. Il cittadino illustre non punta il dito ma si limita a fotografare quella che è una deprimente realtà contemporanea di bugie e maschilismo che non risparmia nessuno, nemmeno i premi Nobel. Perché Mantovani non è un “eroe” tornato per educare i suoi compaesani, ma è antropologicamente e fatalmente uno di loro. Indipendentemente dalle differenze economiche e culturali che ci possono essere tra gli uomini, la mediocrità sarà sempre quella livella sociale in grado di renderci sempre tutti uguali, riconoscibili nei nostri universali limiti. A differenza di tante commedie moderne, il finale non propone nessuna conciliazione, non tradisce la natura della storia, ma scolpisce irrimediabilmente il ritratto impietoso di un artista ipocrita, persino più insignificante del mezzobusto che lo rappresenta nella piazza cittadina.
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