Non c’è cosa più ardua che prendere coscienza della scomparsa di due punti cardinali della propria esistenza in un momento della vita in cui si pensa che il futuro sia già abbondantemente scritto. Nathalie, alle soglie dei sessant’anni, si trova ad affrontare la morte della madre, da tempo rinchiusa a malincuore in una casa di riposo, e il crudele abbandono del marito, invaghitosi dopo venticinque anni di matrimonio di una compagna più giovane.
È quindi ancora una volta il tempo e lo scorrere lento ma regolare degli anni a fare da sfondo al cinema di Mia Hansen-Løve, che già con Eden aveva dimostrato una grande abilità nel raccontare la angosce del passato e le incertezze del futuro. Ma alle naturali paure per ciò che verrà la cineasta francese affianca un genuino senso di fiducia e speranza, quello di una libertà ritrovata e inaspettata che spingerà la protagonista a ricominciare da capo con un giovane ex studente, idealista e con la passione per la lotta politica.
Ma se L’Avenir da un lato riesce a raccontare con un lavoro di sottrazione la nascita di una nuova speranza quando ormai si è smesso di cercarla, è però al tempo stesso un lavoro che in alcuni momenti sembra attorcigliarsi su se stesso, avviluppato in una rete di citazioni alte e filosofiche che spesso tolgono il respiro (è sempre difficile non risultare pretenziosi quando si gioca in questo campo).
Ma la forza del cinema di Hansen-Løve è quella di rendere realistico il passaggio degli anni (o delle semplici giornate), entrando nelle pieghe di quelle ferite che il passato inevitabilmente scolpisce sul corpo delle persone. E in questo il finale conferisce senso a tutto ciò che si è visto nei minuti precedenti, riuscendo a rendere speciale un momento che nella storia del grande schermo è stato già ampiamente usato in chiave metaforica: l’arrivo di una nuova vita.
È un cinema contemporaneo che sente la necessità di parlare della riaffermazione di sé e della costante ricerca della “difficile libertà” (non è un caso che Emmanuel Lévinas sia tra le letture predilette di Nathalie). Isabelle Huppert dopo Elle di Paul Verhoeven è nuovamente il corpo di questa femminilità, il cui erotismo sopravvive al tabù degli anni. E quello che potrebbe sembrare ad un occhio poco attento un semplice vezzo narcisistico, ovvero la storiella con un ragazzo più giovane per vendicarsi del tradimento del marito, è in realtà la piena consapevolezza del proprio posto nel mondo. Quella consapevolezza che mette in luce la forza generatrice della protagonista, e di tutto il cinema di Mia Hansen-Løve.