Piet Mondrian, la decomposizione della realtà

Costruisco combinazioni di linee e di colori su una superficie piatta, in modo di esprimere una bellezza generale con una somma coscienza. La Natura (o ciò che ne vedo) mi ispira, mi mette, come ogni altro pittore, in uno stato emozionale che mi provoca un’urgenza di fare qualcosa, ma voglio arrivare più vicino possibile alla verità e astrarre ogni cosa da essa, fino a che non raggiungo le fondamenta (anche se solo le fondamenta esteriori!) delle cose… Credo sia possibile che, attraverso linee orizzontali e verticali costruite con coscienza, ma non con calcolo, guidate da un’alta intuizione, e portate all’armonia e al ritmo, queste forme basilari di bellezza, aiutate se necessario da altre linee o curve, possano divenire un’opera d’arte, così forte quanto vera”.

In una lettera a Hans Peter Bremmer del 1914, Piet Mondrian spiegò così la sua teoria artistica. Linee. Colori. A delineare forme geometriche capaci di narrare la natura. Passò dai rami degli alberi plasmati sul modello del cubismo che aveva conosciuto negli anni parigini, tra il 1912 e il 1914, alla totale astrazione della forma. Non si tratta di assenza di segno. Non cancella Mondrian. Bensì sottrae alla realtà. Quasi depura la tela. Per rappresentare un albero non è necessario dipingerne i rami, le foglie. Bastano delle linee. I colori primari. Dalla rappresentazione alla decomposizione. Fino all’astrazione. A differenza di Picasso e Braque, non vede nella scomposizione delle forme, tipica del cubismo, un medium da coniugare a quella ricerca spirituale teosofica. Quel che ricercava Mondrian era l’indagine dello spazio. Un albero, come il mondo, poteva essere ridotto ai minimi termini. Quasi un’ascesi spirituale. Quel che si può raggiungere attraverso la semplificazione è la purificazione. Dello spirito. Della vista. E così lo spazio rappresentato diviene metafora della struttura della coscienza, luogo in cui risiede ogni attività creativa.