Poetry, la recensione

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Un corpo inerme si lascia cullare dalle onde.

Il solo inizio del film è già molto forte e lascia intendere immediatamente che c’è qualcosa che non va, ma non viene da subito svelato il mistero, anzi, si dà immediatamente spazio alla sua assoluta protagonista, che inizialmente sembra non essere coinvolta nella triste vicenda. Il titolo del film lo riassume benissimo, “Poetry”, cioè “poesia”. Ogni momento del lungometraggio è accompagnato dal delicato e per niente fastidioso suono della natura, che si fa notare ed ispira Mija, la protagonista. E’ interpretata da una delle più celebri attrici coreane, Yun Junghee, che all’inizio del film decide di seguire un corso di poesia, e così nonostante gli eventi tragici e scomodi che la circondano lei si impegna, cerca stimoli e prende appunti su ciò che la circonda, non tralasciando nulla, ha infatti intenzione di raggiungere il suo scopo : comporre una poesia entro la fine del mese.

Non c’è colonna sonora a distrarre, nemmeno ad accompagnare i titoli di coda, e il film scorre silenzioso, un po’ troppo lungo forse, ma decisamente coinvolgente.
Lee Chang – Dong ci mette di fronte , come evidenziato da lui stesso nella conferenza stampa che si è tenuta ieri a Roma, a quella che è la mancanza di comunicazione tra le generazioni, evidenziando in particolare le difficoltà che trova Mija a relazionarsi con il nipote adolescente, che commette non solo un grave crimine ma sembra del tutto inconsapevole di ciò che ha causato e vive le sue giornate con superficialità e noia, mostrandosi spesso scortese anche con l’unica persona che si occupa della sua crescita, appunto la nonna. Mija non riesce a capire suo nipote Wook e si limita a fissarlo e a dargli da mangiare, non vedendo realmente ciò che ha dentro di sé. La poesia sembra l’unica evasione dell’anziana, che sta dimenticando le parole anche più banali a causa del morbo di Alzheimer, ma non dimentica di fissare i fiori, di ascoltare il rumore del vento…di assaporare una mela, cominciando a vedere tutto da un’altra prospettiva.

Nell’intervista di ieri il regista ha amesso che il lungometraggio parla di un fatto di cronaca vero e proprio, uno stupro collettivo con successivo suicidio della vittima, ed ammette di essersi ispirato ad una vicenda avvenuta proprio in Corea, uno stato dove però queste cose “non avvengono tanto spesso”.
Come è suggestivo l’inizio del film lo è anche il suo finale. E’ proprio alla fine infatti che vediamo per la prima volta la vera disperazione dell’indiretta protagonista del lungometraggio, la piccola che è stata tormentata fino alla più tragica delle decisioni.
Il suo sguardo in macchina è suggestivo e commovente e chiunque diventa in qualche modo testimone del suo folle gesto e dei suoi sentimenti, la ragazza se ne va recitando una poesia, che improvvisamente ci sembra conosciuta, come se tutto il film avesse lo scopo di portare fin lì e non avesse bisogno di dire altro.

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