QUANDO IL GAMING GUARDA AL CINEMA, E VICEVERSA

La transmedialità è in piena espansione e sta toccando tutti i livelli di comunicazione. Dai prodotti di consumo all’intrattenimento, il servizio, la storia del marchio o del personaggio, l’opera, se si parla di arte o di cinema, per essere percepita nella tempesta di messaggi che riceviamo ogni secondo della nostra vita, oggi deve necessariamente essere in grado di passare fluidamente da un media all’altro.

Ecco che la necessità di sviscerare una storia, che si tratti di argomento o prodotto, e di svilupparlasu più piattaforme, indipendenti fra loro, fornendo all’utente un’esperienza moltiplicata, interattiva e condivisibile con un risultato potenzialmente virale, diventa il must nella concezione dei nuovi contenuti e dei nuovi servizi.

Un esempio virtuoso, oltre che virtuale quando si parla di transmedialità viene dalla relazione tra il mondo del cinema e degli audiovisivi tout court, quindi anche serie TV e quello del video game.

Ma vediamone le origini e le dinamiche. Partiamo dal genere d’elezione per certi processi d’ibridazione, il film Final Fantasy che rappresenta ancora oggi uno dei più onesti ed espliciti tentativi di ibridazione, pur nelle sue innumerevoli contraddizioni interne. Perché per i fautori del videogioco il piacere videoludico resta smorzato per l’impossibilità di interagire con il mondo rappresentato sullo schermo/monitor; mentre per lo spettatore cinematografico i processi di immedesimazione ed empatia nei confronti dei personaggi sono resi difficoltosi dalla loro resa grafica computerizzata.

Tuttavia, i processi di gamificazione e transmedialità hanno saputo intercettare un pubblico in grado di apprezzare simultaneamente entrambi gli aspetti di reciproco richiamo tra cinema e gioco. Producendo titoli e prodotti di diversa gamma.

L’action, il war game o il gioco d’avventura tendono ad articolarsi su sceneggiature forti sulle quali l’utente esercita una capacità manipolatoria ridotta stemperandone le criticità. Ciò è tra l’altro ben tematizzato in un film come “eXistenZ” di David Cronenberg (1999), dove i protagonisti si immettono nella spina dorsale delle “bio-porte” che permettono loro di entrare nel videogioco di realtà virtuale da cui la pellicola prende il titolo. 

Abbiamo visto nel tempo come il passaggio dal monitor al grande schermo è stata una delle operazioni che ha premiato il botteghino: prendiamo “Resident Evil” per citare un video game survival-horror di notorietà globale. Fino ad arrivare ai film interattivi: “Urban Runner” (AA.VV., 1996), “Passione mortale” (Tender Loving Care, David Wheeler, 1997) e la versione DVD del più recente “Final Destination 3” (James Wong, 2006). 

Finché, con l’avvento di Netflix la proposta è giunta anche ai neofiti delle ibridazioni con la puntata “Bandersnatch” della nota serie “Black Mirror”. 

Ma se la gamification si sta espandendo in svariati settori, vuoi anche quello dell’istruzione e del lavoro, certo è che il cinema di converso diventa contenitore preferenziale dal quale attingere per inserire l’elemento narrativo, lo storytelling. Vuoi nei prodotti di consumo come nei servizi e ovviamente nell’intrattenimento. Qui un esempio lampante è dato dalle slot machine, tipologia di giochi proposti sui casinò on line che ormai da alcuni anni uniscono alla “macchina” rimandi cinematografici d’ambientazione filmica: “Matrix slot”, “The Mask”, “Anchorman” e “Vikings”, titoli di hollywoodiana notorietà che dal grande schermo vengono trasmutati in servizi video ludici da device. 

Non c’è quindi limite al gioco di passaggi da un media all’altro. Come ci sta mostrando la stretta e proficua relazione tra cinema e game, il gioco delle ibridazioni ha ancora molto da proporci e in molti settori. Anzi, come dichiarato all’inizio di questo breve excursus, la comunicazione non può più permettersi di non pensare in questa nuova ottica se vuole creare contenuti e prodotti che possano “navigare” con longevità spostandosi fluidamente da una piattaforma all’altra.

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