Kan ya ma kan… (c’era una volta)… raccontava il berbero Idir alla piccola Amsah, per alleviarle la sofferenza di un naufragio che ormai la stava portando alla morte. Una delle tante vicende umane di un profondo sud che guarda al nord, attraverso un drammatico viaggio della speranza o anche attraverso una storia d’amore clandestina come quella di Dora, pugliese, e Salvatore, calabrese, ritrovatisi amanti a Padova. Vicende che insieme ad altre, pur apparentemente lontane e slegate tra loro, prendono forma nel romanzo “Da dove viene il vento”, della scrittrice lucana Mariolina Venezia e danno spazio al desiderio, ai sentimenti, all’empatia, ma soprattutto alla ricerca di ciò che ci rende uguali. Già Premio Campiello 2007 con “Mille anni che sto qui” (2006), storia di quattro generazioni di donne di Grottole, in Basilicata, dall’Unità d’Italia alla caduta del Muro di Berlino, Mariolina Venezia ha collezionato un successo dietro l’altro grazie all’assoluta versatilità e originalità con cui riesce a trattare i più svariati argomenti.
In “Come piante tra i sassi” (2009) si è cimentata nel giallo raccontando in modo avvincente storie di rifiuti tossici e gli effetti della globalizzazione sulla Basilicata, attraverso le avventure del Pubblico Ministero Imma Tataranni, personaggio stravagante e goffo ma con una grande idea di legalità, che vedremo protagonista anche dell’ultimo libro della scrittrice in uscita ad aprile prossimo. In “Rivelazione all’Esquilino” (2011), ha raccontato una coinvolgente commedia multietnica in cui una comunità di indiani e di siciliani di seconda generazione, si confronta e si scontra a Piazza Vittorio, ritrovando così le proprie radici. Un inno alla multiculturalità con cui l’autrice regala un prezioso insegnamento: “solo attraverso l’altro si conosce sé stessi e tutte le civiltà nate dal confronto sono più ricche”. Di queste storie, dei personaggi che le animano e dei luoghi in cui si realizzano ci parla la scrittrice stessa.
Da dove viene il vento è stato definito il più meridionale dei tuoi libri: Dora è pugliese, Salvatore è calabrese, Idir è berbero. Cosa ti ha spinto ad abbracciare il Mediterraneo?
Molto semplicemente io sono del Sud, sono nata in Basilicata, poi ho vissuto in Puglia, ho passato la mia infanzia e la mia gioventù tra la Basilicata e la Puglia. Sono molto legata alle mie radici, spesso le cerco anche fuori dall’Italia, perché quel mondo di cui ho anche parlato in Mille anni che sto qui, quel mondo mediterraneo con delle tradizioni millenarie che in questi anni sta scomparendo, è un mondo che è cambiato moltissimo nel giro di qualche decennio e a volte mi capita di andare a cercare le mie radici in paesi dove ritrovo delle tradizioni, dei modi di fare, o addirittura delle piante o degli oggetti che qui non ci sono più. In questo libro ho affrontato il Nord Africa, dove appunto da una parte, c’è un senso di profonda somiglianza da parte dei protagonisti che sono entrambi meridionali, e dall’altra c’è anche il tema dell’emigrazione, del confronto, della paura che si prova verso l’altro.
Il titolo deriva da una favola berbera che Idir racconta alla piccola Amsah durante il naufragio ma tutto il suo background culturale è vero. Perché hai scelto un berbero per raccontare la tragedia dell’immigrazione e dello sfruttamento e come ti sei documentata per entrare nella sua cultura?
Devo dire che questa volta mi sono documentata molto di più con internet. Quando ho iniziato a scrivere Mille anni che sto qui non ho usato assolutamente Internet, invece, pian piano, questo mezzo si è imposto. Devo dire che si trova tantissimo, filmati, scritti, blog, e per un romanziere è una fonte preziosa perché si ha accesso a delle informazioni molto personali, molto private e quindi molto più utili per ricostruire il mondo. Poi ho fatto delle ricerche a Parigi, nella Biblioteca del Mondo Arabo e girando per i quartieri parigini dove ci sono librerie tenute da nordafricani, ho spulciato in questi libri dove ho trovato la storia berbera che viene raccontata e che dà il titolo al libro Da dove viene il vento. Ho anche parlato di varie questioni con molti arabi che vivono a Parigi, perché quando scrivo, per quanto riguarda la documentazione, preferisco sempre attingere a delle fonti private piuttosto che a biblioteche o documenti che sono freddi, preferisco avere delle storie piuttosto che dei dati, anche se poi anche il saggio è molto utile. Ho guardato anche molti filmati, perché sono molto utili quando si scrive, io scrivo spesso con una scrittura abbastanza visiva e quindi, proprio come un pittore che fa una specie di studio dal vivo, poter avere il soggetto sotto gli occhi, poterlo descrivere a volte è molto utile per poi costruire una scena.
Come incide la tua attività di sceneggiatrice sul tuo modo di scrivere?
Non so, però posso dire che i primi libri che ho pubblicato in Francia molto tempo fa erano dei libri di poesie, molto visive, fatte soprattutto di immagini, tanto che qualcuno mi consigliò di scrivere per il cinema. Una volta un regista, leggendole mi disse: “Tu devi scrivere per il cinema”, per questo io poi mi sono iscritta a Roma al Centro Sperimentale di Cinematografia dove ho studiato sceneggiatura. Direi quindi che era una cosa che faceva già parte del mio approccio e che io ho coltivato. Lo scrivere per immagini, poi la consuetudine con il cinema, con le narrazioni di carattere cinematografico, evidentemente hanno fatto sviluppare la mia scrittura in quel senso. Mi è capitato di andare a vedere Marco Paolini che raccontava storie spaziando da Marghera a Marco Polo, insomma raccontando moltissime cose perché lui è un eccezionale narratore e affabulatore. Il giorno dopo, mentre camminavo avevo delle immagini nella mente come se avessi visto un grandissimo film e mi chiedevo che film avessi visto e cosa fossero quelle immagini. In realtà erano le immagini di quello che avevo sentito raccontare. Ecco, con le parole si possono fare delle scene fantastiche e questo permette di esercitare molto la nostra fantasia, il nostro bisogno di affabulazione. Per me, la sceneggiatura cinematografica o televisiva, che mi è capitato più spesso di frequentare, e il romanzo, sono molto complementari perché quando si scrive per il cinema o per la televisione, bisogna tener conto della realizzabilità di quello che si scrive, mentre quando si scrive per un romanzo si possono creare delle immagini in maniera assolutamente libera, facendo leva direttamente sulla facoltà che ognuno ha di immaginare e quindi questo mi permette di esprimere quella parte che invece devo un po’ tenere a freno quando scrivo sceneggiature.
Tornando a Idris, perché hai scelto un berbero e non un’altra etnia? C’è un motivo particolare?
Perché volevo una persona che fosse, già nel suo paese, una minoranza. Lui è un berbero che è già una minoranza nel paese da cui parte e infatti c’è la storia del cugino Zirzal che vive con sofferenza questa specie di egemonia araba sulla sua cultura originaria che è quella berbera, i nomi berberi vengono sostituiti da quelli arabi, la lingua berbera viene vietata nelle scuole, insomma una sorta di piccolo genocidio culturale e quindi Zirzal viene in Europa quasi pensando di trovare più libertà mentre invece troverà ancora maggiori discriminazioni. Tutto il libro Da dove viene il vento è una sorta di riflessione sul tema delle radici e il tema dell’altro ed è una riflessione che mi è stata suggerita dalle vicende del mio romanzo precedente Mille anni che sto qui. Quando l’ho scritto, ho raccontato delle storie di radici, di appartenenza a un luogo, anche se poi il punto di vista da cui viene raccontata questa storia è quello di una persona che non vive in quel luogo, che ne è fuori e che quindi guarda alle radici come un ritorno al passato, con uno sguardo comunque da lontano. Andando in giro a presentare questo libro, mi sono resa conto che avevo toccato un argomento importante per questi anni, perché sono anni in cui sta andando a rotoli la globalizzazione, il mondo nel quale viviamo è un mondo dove le diversità vengono sempre più cancellate, e dove tutto si omologa seguendo dei modelli. Credo quindi che da parte di molti nasca il desiderio di rivolgersi alle radici verso la ricerca di una identità più profonda e più autentica. Ma bisogna stare molti attenti a non travisare questa cosa come una chiusura verso ciò che è diverso. Effettivamente, proprio questi sono gli anni dei fondamentalismi, gli anni in cui si è formata la Lega, Nord e Sud non riescono a conciliarsi, in questi anni vediamo addirittura l’incapacità di convivere tra i sessi, i frequentissimi omicidi di donne, e così io ho voluto parlare nel mio libro Da dove viene il vento, di che cosa vuol dire avere le radici e cosa vuol dire però avere le radici anche in sé stessi, essere quindi capaci di guardare a chi è diverso, a chi è portatore di diversità, non come a qualcuno di cui bisogna avere paura ma come qualcuno che ci completa nel nostro essere umani.
Dora e Salvatore sono amanti clandestini e vivono un amore sofferto e malato, Dora però scoprirà ciò che la lega agli altri, l’empatia, un sentimento che la renderà libera. Tu sostieni che quando si arriva a percepire profondamente il sentimento della propria umanità si è liberi. Puoi spiegarci meglio questo aspetto?
Torniamo di nuovo al discorso sul mondo globalizzato che è un tema che sto affrontando anche nel mio nuovo libro. In Mille anni che sto qui c’era una forte tensione tra due aspirazioni che fanno parte dell’essere umano, importanti e valide entrambe, che sono da una parte il bisogno di essere liberi e dall’altra, il bisogno di appartenere, quindi Mille anni che sto qui ci racconta proprio il passaggio di una civiltà dell’appartenenza forte al nucleo familiare, al senso di clan nel paese, a una sempre maggiore libertà che viene data da questo mondo in cui viviamo, in cui apparentemente ci sono meno costrizioni ma questa è una falsa libertà perché a un certo punto, come diceva Giorgio Gaber “Libertà non è star sopra un albero, libertà è partecipazione”, cioè si è liberi quando si riesce a interagire con gli altri. E come si riesce a interagire con gli altri? Quando si è capaci di provare nel proprio vivere quello che è il senso della vita degli altri, ovvero, al di là di tutte le differenze che possono esserci tra due persone, differenze di sesso, razza, cultura religione, di lingua, e cosi via, c’è però qualcosa che è simile e questo è la maggior parte di ciò che ci costituisce, cioè, essere degli esseri umani che vivono sulla terra e che quindi nascono vivono e muoiono. Questa cosa molto semplice, in realtà è molto forte e io nel libro cerco di arrivare a questo nucleo, al sentimento di questo nucleo, al sentimento di essere umano, quindi simile agli altri esseri umani che vivono sulla terra in contemporanea e quindi di sentire gli altri come facenti parte di noi al di là di ogni differenza.
Da dove viene il vento è anche il primo dei tuoi libri non ambientato in Basilicata, la tua terra, da te spesso definita, “terra di contrasti”. Quali in particolare, e cosa la rende così adatta a far da sfondo alle storie che scrivi?
La Basilicata è una terra dove l’industrializzazione è arrivata molto tardi, è stata imposta da fuori, è un posto dove fino a non molto tempo fa si erano conservate delle tradizioni millenarie che a un certo punto sono state affiancate e poi soppiantate da cose molto moderne, quindi si sono trovati e ancora adesso convivono sullo stesso territorio, delle cose molto antiche e delle cose invece molto moderne. Nel libro che sto scrivendo adesso, per esempio, racconto del petrolio che è stato trovato in Basilicata dove c’è il più grande giacimento petrolifero dell’Europa continentale, cosa che ancora convive nel racconto del libro, con i resti di tradizioni magiche, di un modo di vedere la vita legato a una cultura contadina e quindi tradizionale. Questo tipo di passaggio è avvenuto un po’dappertutto in Italia e nel mondo, cioè il passaggio dal mondo rurale, arcaico, a un mondo sempre più industrializzato, però poiché in Basilicata la cosa è avvenuta molto rapidamente, in maniera concentrata è più facile leggere tutti i cambiamenti, tutti i contrasti che questa riconversione ha prodotto.
Come piante tra i sassi è invece un giallo che vede protagonista, Imma Tataranni, magistrato appariscente e goffo, alle prese con rifiuti tossici, omicidi e abusi edilizi. Come mai hai scelto il giallo per trattare questi temi?
Quando ho scritto Mille anni che sto qui mi restava altro materiale sulla Basilicata, sia materiale già esistente sia materiale che raccoglievo man mano che andavo in giro per l’Italia a presentare il libro, perché stranamente quando si parla di qualcosa, poi tutti vengono a raccontarti altre aneddoti, altre storie che hanno a che fare col tema che hai trattato, quindi a un certo punto ho raccolto altre storie che parlavano della Basilicata di oggi. Così ho avuto il desiderio di continuare a scriverne però la saga non era più la forma adatta perché la saga si adatta di più a un tempo passato, a un tempo quasi favolistico, il tempo moderno invece mi sembrava più facile raccontarlo con il giallo perché il giallo ti permette di intrufolarti in un ambiente diverso e parlare con persone diverse e quindi di raccontare di nuovo questi contrasti ma in un altro modo. Un modo che io ho cercato di rendere anche piuttosto di intrattenimento, diciamo che quando io leggo un libro mi ritengo completamente soddisfatta quando mi avvince, ma nello stesso tempo mi nutre, mi fa riflettere, è anche scritto bene e cosi via, Spesso capita che si legga un libro molto interessante però molto faticoso, oppure che si legge molto facilmente però poi alla fine non ti lascia niente. Diciamo che quando scrivo, poiché è quello che mi piace leggere, cerco di coniugare queste due cose, perché credo che noi, come essere umani, siamo delle persone molto complesse e sofisticate e abbiamo quindi bisogno di nutrirci a vari livelli e penso che non ci sia niente di male nel tener conto anche del livello più semplice, più infantile, di quello che ha bisogno della storia. Per esempio, nel giallo uno vuole sapere chi è l’assassino, cosa è successo, attraverso questo percorso uno scopre tante altre cose.
Il precedente Rivelazione all’Esquilino è una sorta di inno alla multiculturalità e alla conoscenza dell’altro. Ma gli italiani sono pronti alla multiculturalità o ne hanno paura, come il padre di Rosaria che inorridisce perché sua figlia fa la cameriera agli indiani?
Siamo messi malissimo, diciamo che gli Italiani verso gli immigrati hanno avuto un atteggiamento che io non mi aspettavo assolutamente. Quando avevo vent’anni ho abitato per parecchio tempo in Francia dove c’era molto razzismo verso i nordafricani ma ero convinta che a loro in Italia questa cosa non sarebbe successa. In Rivelazione all’Esquilino, ho parlato in maniera leggera e allegra di questa memoria corta degli italiani, di questa incapacità di accogliere, quando fino a ieri siamo stati anche noi emigranti, addirittura ci sono ancora degli emigranti perché se si va in Basilicata ci sono ancora delle persone che viaggiano, tutte le settimane vanno in Germania a lavorare e poi tornano con gli autobus. In Da dove viene il vento parlo dell’immigrazione in termini molto più drammatici, in effetti lo è diventato, io penso che il dramma degli immigrati sia uno dei grandi drammi dei nostri tempi, paragonabile all’olocausto degli ebrei, allo sterminio degli armeni, c’è la spersonalizzazione di queste persone. Già iniziando dal nome “extracomunitari” si è instaurato questo modo di vedere le cose per cui “Ah sono degli extracomunitari!”, quindi nel momento in cui si dice extracomunitario, la persona viene sprovvista della sua storia, della sua individualità o diventa praticamente un oggetto e anche quando i giornali parlano delle tragedie delle carrette del mare per cui muoiono centinaia di persone, queste persone tendono ad essere dei numeri, mentre se muore una singola persona italiana, ha un nome. Ci sono delle masse di numeri verso le quali invece alcuni provano empatia, altri paura, senso di pericolo, ed è una cosa veramente terribile ed è anche uno dei motivi che mi ha spinto a scrivere Da dove viene il vento cioè, voler ridare un volto, un nome, una storia, a queste persone.
La voce narrante del libro è una donna che vive a Roma e che cerca di capire la sua vita attraverso gli altri, ma soprattutto attraverso le storie degli altri. Quanto coincide con Mariolina Venezia questa figura?
C’è una frase molto bella che ha detto Orhan Pamuk nel discorso che ha pronunciato quando ha vinto il premio Nobel: “Lo scrittore è uno che parla di sé parlando di altri e parla di altri parlando di sé”, ed è un po’ quello che fa chiunque scrive, però la cosa particolare è che è molto più facile parlare di sé quando si parla di un personaggio diverso da sé, per esempio, io ho raccontato di Idir, che è un giovane berbero diverso da me per sesso, età, etnia, condizione, però in lui ho messo dei sentimenti che sono profondamente miei, cosi come li ho messi nella narratrice di Da dove viene il vento, lì però diventa un po’più difficile farlo perché come personaggio ha delle caratteristiche più simili a me perché è una donna, più meno della mia età, che fa un lavoro simile, allora diventa più difficile svelarsi. E’ come quando ci si mette una maschera e si va a un ballo mascherato diventando più disinibiti e più autentici, è un po’ la stessa cosa che si fa per i personaggi, quindi non vuol dire che se un personaggio che ha più o meno la mia età e fa più o meno le cose che faccio io sia quello in cui io mi identifico di più. Io parlo di vari personaggi, quindi giocoforza, a volte ce ne sono alcuni che mi somigliano esteriormente ma non necessariamente sono quelli che mi somigliano di più interiormente.
In una recente intervista, hai ribadito l’importanza delle radici affermando che chi sa da dove viene sa anche dove andare. Questa consapevolezza, quanto potrebbe essere minata dalla grave crisi economica che sta attraversando il mondo e che forse impedisce ai giovani di scegliere dove andare?
No anzi, a volte invece sapere chi siamo ci aiuta molto ad affrontare il futuro, per esempio, all’inizio della crisi, quando è diventata più dura, ci sono stati molti suicidi, di imprenditori, di operai, di gente che era rimasta senza lavoro e si suicidava e anche i giornali ne parlavano in questo senso. Ma siamo sicuri che si sono suicidati per la crisi, perché non avevano soldi? Viviamo in un mondo in cui ancora qualcosa da mangiare si trova, anche se non si hanno molti soldi e ricordiamoci che i nostri nonni a volte vivevano in modi molto diversi. Mi è capitato ultimamente di leggere un libricino scritto da un parrucchiere o muratore di Grottole, il paese da cui provengo, e lui raccontava quello che poi racconto anche io in Mille anni che sto qui, ovvero come vivevano i contadini. Diceva che si alzavano alle tre di notte, poi le donne con i neonati addosso, facendo la calza per non perdere tempo, si facevano 4 o 5 chilometri a piedi, arrivavano in campagna, zappavano tutta la giornata, poi si riprendevano il neonato, sempre rifacendo la calza, si rifacevano 4-5 chilometri, arrivavano a casa, facevano la pasta a mano, facevano il pane, mangiavano, pulivano, andavano a prendere l’acqua al pozzo, andavano a dormire e il giorno dopo ricominciavano. E spesso questi figli cresciuti con grandi difficoltà, spesso morivano delle malattie più semplici come l’influenza, però la gente non si suicidava, anzi, aveva un grande attaccamento alla vita che la faceva andare avanti. Quindi, diciamo che a volte sapere da dove veniamo ci può aiutare ad affrontare la vita con più armi, con più consapevolezza perché oggi siamo arrivati, grazie anche all’educazione che abbiamo ricevuto in questo senso, a pensare che è molto importante possedere tutta una serie di oggetti, tutta una serie di privilegi ma non è detto che sia lì il senso della vita.
Sottolinei spesso l’importanza, quasi terapeutica, di raccontare e raccontarsi delle storie. Da cosa nasce questa convinzione?
Credo che il bisogno di storie sia molto grande, è una cosa che ha sempre accompagnato l’uomo e le storie sono state sempre raccontate in vari modi, sia davanti a un fuoco primordiale vicino alle caverne, sia come vengono raccontate oggi dalla televisione. Raccontarsi delle storie è il modo di mettere ordine in quella specie di caos senza significato che sono gli avvenimenti della nostra vita, è un modo per dare un senso alla vita, un senso che diamo noi. Mettendo in ordine gli eventi in un certo modo, raccontandoli in un certo modo, noi gli attribuiamo un senso. Credo che questo sia il motivo per cui abbiamo bisogno di storie e per cui le storie non moriranno mai, che siano sotto una forma o un’altra.
Cosa stai scrivendo in questo momento?
Sto completando un nuovo romanzo giallo che ha come protagonista Imma Tataranni, la Pm di Come piante tra i sassi, che si trova a indagare su un nuovo caso in Basilicata, ha a che fare con il petrolio e dovrebbe uscire ad aprile per Einaudi.