Dopo Lo Sciacallo con Jake Gyllenhaal, il cinema di Dan Gilroy prosegue il suo discorso sui personaggi con il nuovo End of Justice – Nessuno è innocente (in originale Roman J. Israel, Esq. ad evidenziare proprio la centralità ricoperta dal protagonista nella storia narrata). Se nel suo film del 2014 lo “sciacallo” Lou Bloom era un uomo instabile, avido e pericoloso, l’avvocato afroamericano Israel è un personaggio meno decifrabile, tormentato da ossessioni grandi (che Gilroy suggerisce in maniera didascalica fin dall’inizio, per poi approfondirle con l’uso di flashback) e piccole (le tante manie che caratterizzano questo legale fuori dal tempo, che non riesce ad adattarsi ad un modo di vivere che non sente suo).
End of Justice – Nessuno è Innocente: la trama del film
Roman J. Israel è un avvocato di Los Angeles che è stato sempre tenuto in panchina dal suo socio William Jackson a causa della sua indole non facilmente domabile, ma che per cause di forza maggiore si ritrova per la prima volta a gestire le controversie legali del suo collega direttamente davanti alla Corte e non dalle retrovie a preparare la documentazione dei casi. Proprio il fascino “borderline” di Roman offre l’occasione ad un performer eccezionale come Denzel Washington di dare il meglio di sé nell’impersonare un personaggio che sembra essere sempre sul punto di esplodere ma che non è mai esagerato e mostruoso, come quello del precedente lungometraggio di Gilroy.
End Of Justice – Nessuno è innocente: un Denzel Washington fisico
Per questa ragione sarà proprio il corpo di Denzel Washington a scandire l’incedere della narrazione: sia per la maniera personalissima con cui l’attore utilizza gesti e movimenti, rilasciando improvvisamente le tensioni accumulate dal personaggio senza per questo andare sopra le righe, sia per l’utilizzo che il regista fa del suo aspetto fisico (quando il protagonista deciderà di “aggiornare” il suo modo di essere, la prima cosa che farà sarà cambiare taglio di capelli).
End of Justice: un cinema che si basa su ambiguità e complessità
End of Justice, a differenza dei classici legal drama, si svolge poco nelle aule di tribunale e molto al di fuori di esse. Una scelta che in qualche modo evidenzia la poca coesione di una trama che vorrebbe dire tante cose senza avere ben chiaro quale sia il modo migliore per dirle (il film indugerà persino sulla vita sentimentale del suo protagonista senza che questa aggiunga nulla di nuovo alla caratterizzazione del personaggio). Non c’è quindi il rigore dei capolavori di Sidney Lumet, in grado di tenere il pubblico costantemente con il fiato sospeso e di conferire ad ogni scontro verbale un dinamismo unico, ma una sceneggiatura convulsa (quando invece era lineare ed asciutta quella de Lo Sciacallo) che apre numerose sottotrame destinate comunque a concludersi nell’unico finale possibile (e prevedibile) fin dall’inizio.
Il nuovo lavoro di Dan Gilroy è quindi un film meno diretto ed efficace del precedente, che però cerca di compiere un’operazione che è nettamente più complessa partendo dalla stessa idea di partenza: narrare la storia di un personaggio affascinante ma che non può essere giustificato. Se il reporter di Nightcrawler scendeva negli abissi della sua follia verso la conclusione della storia, divenendo quindi un personaggio esplicitamente negativo, Roman J. Israel resta per tutto il film una figura importante ed in qualche modo positiva, ma nonostante ciò impossibile da assecondare nelle sue scelte più controverse. Si tratta di un cinema che non strizza l’occhio ai suoi personaggi, che non vuole che questi vadano incontro ai gusti del pubblico, ma è un cinema che si basa sull’ambiguità dei gesti, sulle posizioni meno condivisibili e sulle scelte sbagliate. Quelle dai risvolti più inaspettati.