His House, dell’esordiente Remi Weekes, disponibile su Netflix, dimostra ancora una volta la bontà delle produzioni europee nel genere horror. Il film, britannico, affonda le sue radici nelle comunità africane più povere e indaga i traumi dei migranti in fuga. Il regista mette mano alla classicissima trama del sottogenere della casa infestata, raccontando una storia di immigrazione dura e senza pietà.
His House | la recensione del film Netflix
La storia si apre nel Sudan del Sud, dove Bol Majur e sua moglie Rial stanno fuggendo da una sanguinosa guerra civile insieme alla figlia Nyagak (Malaika Wakoli-Abigaba). Durante la traversata, la piccola si perde in mare e non riesce ad essere recuperata. I due si ritrovano così in un centro profughi del Regno Unito, abbandonati e completamente soli, costretti a fare i conti con il senso di colpa per non averla salvata e con il dolore per la sua perdita.
I due devono essere ‘testati’ per ottenere la cittadinanza. È l’occasione di una vita per Bol, che mostra gratitudine verso un governo che chiede solamente a lui e a sua moglie di comportarsi bene durante il loro periodo di prova. La coppia viene però spedita in un appartamento fatiscente infestato da insetti, nel quale anche i fantasmi del loro passato prendono residenza con loro.
Il modello Jordan Peele
È chiaro che il punto di riferimento di His House sia la produzione di Jordan Peele, non solo Scappa – Get Out e Noi, ma anche la recente serie TV Lovecraft Country della HBO, incanalando solo superficialmente influenze meno ‘popolari’ con Zombie Child e Vampires vs. The Bronx. Nel prendere a modello il cinema di Peele, Remi Weekes attribuisce grande valore all’aspetto razziale, rendendo cruciale il modo di relazionarsi al passato socio-culturale di ciascuno protagonista e trasformandolo in un elemento essenziale per la caratterizzazione della loro personalità. I fantasmi, in His House, sono quindi sia le tangibili emanazione del Male, sia i ricordi di eventi drammatici e i sensi di colpa ad essi associati.