Leatherface, la recensione del sanguinoso prequel di Non aprite quella porta

Annunciato ormai quasi tre anni fa e poi scomparso completamente dai radar, tanto si era chiacchierato di questo nuovo prequel di Non aprite quella porta a causa dei nomi coinvolti. Si parla pur sempre di un lavoro su commissione ma Julien Maury ed Alexandre Bustillo sono anche quelli che hanno detto di no ai remake di saghe come Hellraiser, Nightmare ed Halloween per divergenze creative. Quindi è chiaro che la decisione di prendere in mano questo progetto e di trasporre in immagini la sceneggiatura di Seth M. Sherwood sia stata accompagnata da una rassicurazione sul loro grado di libertà.

Ed effettivamente i due registi sembrano avere il pieno controllo sul piano visivo. Riescono così ad indovinare diverse immagini evocative ed in qualche modo a sopperire ad una produzione che non è di certo nata con lo scopo di dare nuovo senso (e nuova linfa) alla storia del villain di cui porta il nome.

Questa operazione non ha infatti alcun interesse ad espandere la mitologia dietro a quel personaggio (le grandi icone degli anni ’70 sono sopravvissute anche grazie all’alone di mistero che le circondavano) ma piuttosto di omaggiare un maestro del cinema horror attraverso un prequel che però fugge dalle dinamiche slasher dell’originale e da quelle claustrofobiche del secondo. Il cinema di Maury e Bustillo è quello della rinascita del genere dopo la parentesi parodistica degli anni ’90: è quello venuto dopo Hostel e Saw

Vanessa Grasse (Lizzy) in una scena del film

Un terrore che non lascia scampo

E forse quello che colpisce maggiormente di questo Leatherface è proprio la assoluta mancanza di ironia. Non c’è nulla di macabramente divertente nel gore messo in scena dai due cineasti francesi ma solo terrore e brutalità senza scampo. E non c’è da stupirsi di ciò se si pensa al loro capolavoro À l’intérieur così arduo da digerire. Se non ci fosse quel titolo a fugare ogni dubbio si potrebbe persino pensare di star vedendo una storia diversa con personaggi che nulla hanno a che fare con la famiglia del massacro del 1973.

È dai primi trenta minuti che si capisce la cattiveria di questi due registi nel descrivere un mondo dove non esiste salvezza o espiazione: nel riformatorio dove sono rinchiusi i ragazzi, ripreso con delle luci intermittenti, non c’è un angolo sicuro e tutti sono pazzi e sadici senza alcuna esclusione. Un ritmo indiavolato ci porta dentro questo luogo di torture fisiche e psicologiche per poi catapultarci nuovamente fuori dopo una rocambolesca sequenza di fuga dove Maury e Bustillo regalano il loro meglio sul piano della tensione e sulla costruzione dell’imminente sensazione di pericolo.

Nella seconda metà i ritmi invece si dilatano e Leatherface si trasforma in un road movie che ricorda da vicino La casa del diavolo (senza però la sua potenza sovversiva). Pare proprio di vedere quel Texas senza legge tanto caro a Rob Zombie, dove la polizia preferisce farsi giustizia da sola ed ogni crimine perpetrato è destinato a rimanere impunito. Un luogo in cui è possibile compiere stragi in un locale senza particolari problemi e dove si può morire in una roulotte per poi aspettare diversi mesi prima che il proprio cadavere venga ritrovato.

Stephen Dorff è il ranger Hal Hartman in Leatherface

Una regia che valorizza il gore

Non c’è un senso in questa violenza ed ogni morte è quasi sempre evitabile. La coppia di giovani registi sa come usare i mezzi cinematografici per rendere ogni sequenza realmente morbosa ed è proprio questa loro bravura il valore aggiunto ad una sceneggiatura altrimenti elementare e poco originale. I commensali della cena nella scena iniziale (che riprende quella ormai storica di Tobe Hooper) sono inquadrati così da vicino che è possibile osservare nel dettaglio i loro denti costantemente digrignati come se fossimo in Giù la testa di Sergio Leone.

I due cineasti, ad un certo punto, cominciano persino a giocare con chi guarda, imbastendo un piccolo mistero sulla vera identità del ragazzo che poi diventerà effettivamente il carnefice dalla faccia di cuoio: con piccoli indizi sviano lo spettatore e successivamente eliminano uno ad uno i membri della banda, sino a scoprire il vero protagonista con un meccanismo che ricorda Reazione a catena di Mario Bava.

By Davide Sette

Giornalista cinematografico. Fondatore del blog Stranger Than Cinema e conduttore di “HOBO - A wandering podcast about cinema”.

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