Fin dall’inizio della sua carriera dietro la macchina da presa, il francese Christophe Honoré ha indagato nei meandri dei sentimenti e degli slanci passionali da essi derivati, spesso in forma volutamente controversa: basti pensare al discusso e scandalizzante Ma mère (2004), dove il regista metteva in scena una relazione atipica e pseudo-incestuosa tra una madre e il figlio adolescente.
Nel corso degli anni il suo cinema si è evoluto e ha bazzicato anche in territori più leggeri come nel recente Quella peste di Sophie (2016), ma per il suo ultimo lavoro è tornato a scandagliare nel cuore di un rapporto di coppia, in questo caso tradizionale seppur vittima di situazioni al limite dell’assurdo, da leggere in chiave metaforica, che riflettono i mali e le contraddizioni di una coppia e si prestano a ideale veicolo empatico per ampie fette di pubblico.
L’amore che non muore
L’hotel degli amori smarriti
inizia su uno dei fulcri centrali dell’intero racconto, ossia il tradimento della protagonista Maria che si diletta con un amante per fare poi ritorno a casa come ogni sera dal marito Richard. Il loro matrimonio dura da oltre vent’anni e l’uomo non ha mai sospettato nulla, ma la verità è destinata a venire alla luce quando legge per caso dei messaggi compromettenti sul telefonino della compagna.
Maria anziché negare confessa altre avventure extraconiugali e, dopo un’accesa discussione, esce di casa per affittare una stanza nell’albergo antistante il suo appartamento. Dalla finestra della camera ha l’occasione di spiare il coniuge e i sensi di colpa affiorano attraverso la comparsa di presenze visionarie: un Richard ventenne infatti si materializza davanti a lei mettendola di fronte ai propri errori, ma non sarà l’unico “fantasma” del passato che Maria si troverà a fronteggiare all’interno dell’hotel.
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Un tocco visionario
Honoré bracca senza sosta la sua protagonista, fin dai primi minuti dove la segue attraverso le strade cittadine senza lasciarla un attimo, in una sorta di attrazione totalizzante che caratterizzerà l’intera ora e mezza di visione. L’hotel degli amori smarriti ha un fascino fresco e pungente nel decostruire, passo dopo passo, tutti gli eventi chiave di un matrimonio in crisi e riesce attraverso un tocco amabilmente visionario, sospeso tra leggerezza e toni più grotteschi, a restituire un ritratto psicologico verosimile. La comparsa di doppelganger e figure dimenticate del passato, oltre ad offrire un’insolita e inaspettata verve alla narrazione (e ad evitare in questo modo ridondanti silenzi), è al servizio di un sottotesto introspettivo lucido e spietato, con l’ironia e il dramma che si ibridano magnificamente in un’opera specchio nel quale molti spettatori potranno, chi più chi meno, ritrovarsi.
Dall’apparizione di un sosia del cantante Charles Aznavour, nei panni della volontà della protagonista, al ritorno di vecchie fiamme mai dimenticate, il film opta su soluzioni visive originali, con i rimpianti e i rimorsi di un tempo perso per sempre cavalcanti un estro sempre originale e azzeccato. All’interno di un insieme così criptico e realistico al contempo, figlio di una verosimile ambiguità e chiuso da un gradevole epilogo dal taglio dolce-amaro, Chiara Mastroianni veste con completa dedizione, fisica ed emotiva, il scomodo ruolo di Maria e il premio come miglior attrice, ricevuto nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes 2019, può dirsi più che meritato.