Rumore Bianco | la recensione del film di apertura di Venezia 79

Rumore Bianco | la recensione del film di apertura di Venezia 79
3 Punteggio
Regia
Sceneggiatura
Cast
Colonna Sonora

Proseguendo una complessa operazione cominciata con Marriage Story, Noah Baumbach continua ad alzare il tiro delle sue ambizioni per smarcarsi dall’etichetta indie con cui è stato a lungo identificato. Lo fa adattando il celebre romanzo del 1985 di Don DeLillo e creando da esso una commedia impassibile di catastrofismo, una meditazione sulla prosperità occidentale e il suo malcontento, le sue ansie, la sua sazietà intellettuale.

Lo fa, ancora una volta, mantenendo il suo stile e prediligendo i suoi classici personaggi solo apparentemente rigidi e schematici, ma che in realtà nascondono personalità bizzarre e singolari: quello di Greta Gerwig (la cui personalità è definita immediatamente anche dal taglio di capelli, come nei film di Wes Anderson che Baumbach scriveva) e quello di Adam Driver, attore che più di altri è capace di restituire emozioni complesse con invidiabile economia di gesti.

White Noise | il fascino del complotto e della catastrofe

L’idea più potente di Rumore Bianco è la sua fascinazione per la tragedia, il complotto e il cataclisma, quel senso della catastrofe incombente che è proprio dell’immaginario cinematografico americano – come spiega uno dei colleghi di Jack (Don Cheadle) agli allievi passando in rassegna gli incidenti di macchina nei film hollywoodiani in una lezione iniziale che sembra quasi una dichiarazione di intenti. Si profila così l’ipotesi di una dipendenza dagli eventi tragici che in qualche modo restituisce dimensionalità a una realtà appiattita, dove tutto è “rumore bianco” («di quanto in quanto abbiamo bisogno di una catastrofe per spezzare l’incessante bombardamento di informazioni», si leggeva nel libro).

Come il romanzo di DeLillo, anche il film di Baumbach è un compendio delle nevrosi che tratteggiano la normalità di una famiglia americana media, presa a miniatura di tutta la società: Jack Gladney, titolare di una cattedra di studi hitleriani, Babette, sua moglie dipendente dai farmaci, i numerosi figli avuti dai precedenti matrimoni. La vita dei personaggi viene presentata, non senza ironia, all’interno di una nicchia protettiva, emblematizzata dalla collocazione in provincia e dal campus universitario in cui lavora Jack, professore autoreferenziale che si trova spiazzato dalla pluralità schizofrenica del reale, che non riesce a gestire e a ricondurre agli schemi tradizionali in cui ha ingabbiato la sua esistenza.

Una società sull’orlo del collasso

Sulla famiglia protagonista del film aleggia la presenza di un’ombra, il pensiero della fine di tutto, che irrompe nel fittizio delle vite di queste persone con tutta la potenza della sua tangibilità. La morte, in quanto evento vero per eccellenza, dato che non permette fughe teoriche o manipolazioni narrative, viene connotata come cassa di risonanza di quel reale che la postmodernità ha eluso e aggirato.

Manca però in questo nuovo lavoro di Baumbach la capacità introspettiva, o anche semplicemente il gusto e il piacere per l’assurdo non come elemento programmatico, ma come componente filmica essenziale. Un finale dalle tinte noir, sulle orme dei fratelli Coen, devia per l’ennesima volta la strada di un film che vorrebbe essere tutto e finisce per essere “solo” esibizione talento mai davvero messo a frutto.

By Davide Sette

Giornalista cinematografico. Fondatore del blog Stranger Than Cinema e conduttore di “HOBO - A wandering podcast about cinema”.

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